Mehmet, dal Kurdistan alla Sardegna: “Il tuo popolo ti appartiene per sempre”

Meryem e Narin hanno due e tre anni. Sono nate al Policlinico di Monserrato, frequentano l’asilo a Cagliari e così piccine parlano già due lingue: l’italiano e il curdo. Sono le figlie di Mehmet, 42 anni, e di sua moglie Zilan, in Sardegna da sei anni. Abbiamo conosciuto Mehmet (il suo nome e quello dei familiari sono di fantasia, dato che il governo turco controlla l’attività dei curdi esuli nel mondo) a margine di un incontro organizzato giovedì nel locale Su Tzirculu di Cagliari dalla Rete Kurdistan Sardegna con il giornalista e attivista Fuat Kav, dove erano presenti alcuni esponenti della piccola comunità curda che vive da qualche anno nell’Isola: una trentina di persone che si è stabilita tra Cagliari, Quartu Sant’Elena e Olbia. Hanno lasciato il loro paese per sfuggire a un regime oppressivo che nega ogni libertà al popolo del Kurdistan, oggi diviso tra Iran, Iraq, Turchia e Siria.

L’esilio di Mehmet, che attualmente gestisce un locale nel centro storico di Cagliari, ha inizio molto tempo fa. E ha inizio a bordo di un barcone, uno di quelli dove centinaia di viaggiatori tentano dall’Africa e dal Medio Oriente la traversata del Mediterraneo sborsando in cambio migliaia di euro. Niente controlli all’imbarco, solo la promessa di approdare dall’altra parte del mare, nelle coste italiane. Il biglietto per Mehmet costa quattromila euro, ma viste le condizioni terribili del viaggio i trafficanti si accontentano di cinquecento. L’uomo e sua moglie non fuggono da un paese in guerra, o almeno non ufficialmente. La vita nel versante turco del Kurdistan è difficile, e il più piccolo segno di dissenso viene punito con il carcere: “Era il 2002 quando mi accusarono di sostenere il Pkk, il partito dei lavoratori curdo che per il governo turco è considerato separatista e terrorista, solo perché avevo partecipato a una manifestazione. Sarei finito certamente in carcere, e così ho deciso di lasciare il mio paese. È stata dura, abbiamo passato diversi mesi in viaggio tra mille difficoltà e con la paura di essere fermati perché non avevamo documenti in regola. Abbiamo attraversato Italia e Grecia e da lì siamo poi arrivati in Germania dove speravamo di stabilirci ma il governo ha rifiutato la nostra richiesta di soggiorno. Allora siamo tornati indietro: in Italia ci hanno riconosciuto la protezione sussidiaria. Con questa ho potuto riprendere gli studi in ingegneria elettronica, nel frattempo ho trovato lavoro e ho iniziato la mia vita qui”. Dopo qualche anno in Umbria Mehmet e Zilan sono arrivati a Cagliari e hanno aperto un locale dove servono felafel e kebab, nel frattempo hanno avviato pure un ingrosso di alimentari dove si riforniscono molti ristoratori italiani e stranieri.

Tanta la solidarietà della gente: “Quasi tutte le persone con cui entro in contatto sanno cosa accade al popolo curdo attaccato ferocemente dall’esercito turco e conoscono quello che sta succedendo ad Afrin, bombardata e distrutta, con migliaia di persone costrette a lasciare la loro città. Non è vero che le persone qui in Occidente non sanno, sono i governi che assistono in silenzio”.

Le parole di Mehmet si intrecciano con quelle di Fuat Kav (nella foto a sinistra), che sta girando l’Europa per raccontare la tragedia del suo popolo e giovedì è stato a Cagliari: “Il presidente turco Tayyip Erdogan ha armato i militanti di Isis per annientare i curdi e la rivoluzione del Rojava prima e poi per rafforzare la sua leadership in Medio Oriente e spaventare l’Occidente. I curdi hanno resistito e hanno combattuto per se stessi e per il mondo intero riuscendo a sconfiggere l’Isis in Siria e a indebolire il Califfato. Se le cose fossero andate diversamente, se i curdi non avessero sconfitti i miliziani, l’Isis avrebbe fatto molti più morti nei paesi europei. In passato le forze di coalizione occidentali hanno sostenuto la lotta curda ma solo per proteggersi dai terroristi, non certo perché approvavano il progetto democratico. E il silenzio dei governi sul massacro di Afrin oggi è sinonimo di complicità”.

Tornare oggi in Kurdistan per Mehmet e la sua famiglia è impensabile: qui c’è il lavoro, e soprattutto la libertà; di recente suo fratello è stato arrestato nel suo paese solo per aver condiviso su Facebook la foto di una parente morta vent’anni fa mentre combatteva nelle fila della rivoluzione curda, ora è in attesa di processo. Anche la più semplice espressione di dissenso può essere punita con il carcere, soprattutto dopo il golpe in Turchia del 2016. “Eppure mi piacerebbe un giorno vivere di nuovo nel mio paese: se lotti per una causa, per il tuo popolo, la sua lingua e la sua cultura, è impossibile non desiderare di viverci: l’identità ti appartiene per sempre”.

Francesca Mulas

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