E’ diventata un’artista di fama internazionale partendo nel 1940 dalla profonda Ogliastra, ma nella vita di tutti i giorni Maria Lai, classe 1919, ha sempre vissuto con lo spirito e la filosofia di una qualsiasi donna sarda della sua generazione. Come una formichina ha costruito giorno dopo giorno il suo progetto di vita: che fosse un progetto artistico, cioè di un lavoro “non convenzionale”, da questo punto di vista poco importa: quel che conta è che lo ha costruito con le mani, con l’umiltà e la sobrietà che contraddistingue la sua gente. Partendo dal valore dato alle piccole cose.
Quand’era una bambina, Maria si incantava a guardare le donne di Ulassai mentre facevano il pane: il rito mattutino della preparazione e della lavorazione della pasta l’aveva segnata almeno quanto l’arte del cucito e del ricamo che, in un altro rito, quello più distensivo del pomeriggio, le donne ogliastrine celebravano nei cortili e nelle strade del paese. Raccontava che quando vedeva la nonna cucire le diceva: “Tu non cuci nonna, tu scrivi”.
In paese, a Ulassai, Maria Lai rimase molto poco: fin da piccolissima la portarono a Cagliari perché era di salute cagionevole e aveva bisogno di cure, ma a Ulassai tornava tornava spesso a visitare la sua famiglia: i genitori, tre fratelli e una sorella. Ha vissuto fuori dalla Sardegna per vent’anni. A Roma e a Venezia ha fatto gli incontri formativi più importanti per la sua vita (Giuseppe Dessì e Arturo Martini tanto per citare alcuni nomi), ma è stato nella seconda pare del suo percorso, quando ha cominciato a fare arte con le cose della sua terra, che ha trovato la strada e il riconoscimento.
Questa seconda fase comincia nei primi anni Settanta con i fili, i famosi “fili di Maria Lai”, e il pane. E’ allora che realizza i primi telai e inizia a esporre le sue opere. Nel 1977, a Savona, la mostra realizzata con la pasta di pane di Ulassai. Prima, nell’intervallo tra le opere realizzate con tecniche tradizionali e quelle prodotte con i materiali della sua terra, c’erano stati quasi quindici anni durante i quali era stata distante dalle grandi gallerie e dalle esposizioni.
Il ritorno a Ulassai è negli anni Ottanta. Il paese è anche il luogo che la ispira maggiormente, perché è il luogo delle relazioni con la sua gente. Anche se il rapporto di Maria Lai con le donne d’Ogliastra non fu sempre felice. Nel 1981 – quando ebbe l’idea di realizzare quella che sarebbe stata definita la prima performance di arte comunitaria in Europa, la presero per pazza.
Tutto iniziò per via di un’idea di Antioco Podda, il sindaco dell’epoca, che le chiese di realizzare il monumento ai caduti in guerra. Lei rifiutò e rilanciò con un’ altra idea e a partire da un punto fermo: l’opera “doveva servire ai vivi non ai morti”. Quindi, con 27 chilometri di nastro celeste, legò tutte le case di Ulassai alla sua montagna, Sassabella. Il messaggio era il prendersi metaforicamente per mano mano per sconfiggere la paura. Ed era anche un invito a mettere una pietra sopra i rapporti conflittuali.
Nacque un “caso diplomatico” paesano. Addirittura si cominciò a temere che l’iniziativa producesse un effetto opposto a quello voluto e sperato: che i vecchi rancori anziché sopirli li risvegliasse. Allora Maria Lai si inventò il codice dei nastri: laddove tra famiglie esisteva un legame d’amore, al nastro venivano legati dei pani tipici, il pane pintau, mentre laddove le famiglie erano avverse il nastro serviva per marcare il confine tra le parti.
Non tutti, anzi pochissimi, capivano. E ancora pochi parlavano di Maria Lai. Che rispondeva citando una frase di Costantino Nivola: “Sono cose talmente semplici che nessuno le capisce”. Comunque, dopo l’opera delle case legate alla montagna, le cose anche in paese cominciarono a cambiare e si insinuò tra la gente il dubbio che, forse, Maria Lai non era così pazza. Quando alcuni anni dopo, nel 1987, fu inaugurato il lavatoio con la fontana di Nivola riuscì a convincere le donne del paese a preparare per l’occasione il pane pintau. Aderirono in massa in massa e lei le ha ringraziò regalando a ciascuna di essa un suo ricamo sul “muccadore”. Ancora oggi le ormai anziane signore lo espongono incorniciato nelle sale da pranzo.
La storia di Maria Lai racconta il potere immenso della forza di volontà che consente di realizzare imprese in apparenza impossibili. La volontà unita a un senso di irrequietezza che fin da bambina la spingeva a essere sempre alla ricerca di qualcosa. “Mi guardavo allo specchio – raccontava rievocando la sua infanzia – e sentivo una terribile ansia”. Per via di quell’ansia prese la decisione sofferta di partire per Roma in tempo di guerra nonostante la contrarietà dei familiari. E attraverso quel primo passo arrivò a diventare un’artista molto importante continuando a vivere come una contadina dell’Ogliastra.
La sua donazione ha permesso di realizzare a Ulassai un museo. Ha voluto che si chiamasse “Stazione dell’arte” perché non voleva un museo col suo nome, ma “un punto di arrivo e di partenza per le diverse forme artistiche”. Oggi vi lavorano sei persone.
E ieri, nella sua “Stazione”, tutti piangevano la morte di Maria. La donna con il volto segnato dalle mille rughe, un volto che sembrava uscito da una sua stessa opera, in ognuna delle quali si poteva leggere il percorso di una vita dedicata al compimento di un progetto.
Maria Giovanna Fossati