“L’arte? Uno strumento per cambiare”

Paolo Fresu e il suo impegno per la Sardegna. La necessità di rinnovare la classe dirigente. L’apprezzamento per la candidatura di Michela Murgia

L’artista deve occuparsi del mondo in cui vive, come tutti. Ognuno, dunque, faccia la sua parte, Paolo Fresu, con discrezione e umiltà, da molti anni fa la sua. Ha inventato un festival per il suo paese, Berchidda, che è diventato un momento internazionale di incontri e confronti culturali. E guarda con serena fermezza a quanto oggi accade in Sardegna. Senza proporre ricette, senza gridare slogan. Semplicemente a partire dalla sua esperienza. Dove l’incontro tra l’arte e l’impegno per gli altri non è il risultato di una elaborazione ideologica, ma un modo di essere.

Fresu, a Berchidda c’è la musica, ma anche tante iniziative parallele: seminari sui problemi dell’ambiente o sulle energie rinnovabili. Come mai?

“Ho sempre pensato che un artista debba occuparsi della società e della politica, della ‘polis’, come chiunque altro. Credo che questo sia il compito di ogni persona che vive nella società: contribuire a renderla migliore. L’artista ha però una doppia responsabilità che è quella di fotografare il presente e di renderlo comprensibile attraverso un linguaggio: nella musica, nella scultura, nella fotografia, nel cinema. Se poi un artista ha una certa notorietà, ha in più la responsabilità di partecipare a un pensiero collettivo. La musica è un linguaggio diretto, che arriva al cuore delle cose. Non ha senso per me fare musica tanto per farla. È fondamentale per me che la musica contribuisca a raccontare un’idea, un pensiero, o a suggerire una riflessione su alcune tematiche. In questo senso l’arte serve a migliorare la società. E l’arte è uno strumento fondamentale per la crescita umana”.

Il modello del Festival di Berchidda, l’ha tratto da altre iniziative o si tratta essenzialmente di una sua intuizione?

“Non ho preso il modello altrove. Ho voluto provare a realizzare a Berchidda il Festival che avrei voluto vedere in altre parti. Per esempio nel modo del trattare gli artisti, nel modo di dare il benvenuto, insomma costruire un pensiero e un feeling che da musicista avrei voluto ci fosse in ogni altro festival, e che molto spesso non trovavo. Poi con l’andare negli anni tante cose sono cresciute un po’ per caso, un po’ per scelta. L’arte contemporanea, la scoperta delle chiesette di campagna o le basiliche romaniche. Da lì, poi, il rapporto con l’ambiente, la natura, la tutela del paesaggio e del territorio: quando si andava con migliaia di persone per i concerti ci si poneva il problema del rispetto dei luoghi, e questo è diventato contenuto del messaggio. Sento e vedo che altre manifestazioni, e non solo in Sardegna, prendono come modello il ‘Festival di Berchidda’. A me questo fa molto piacere perché evidentemente la semina è stata buona, e non è detto che il raccolto lo si debba fare solamente noi. C’è chiaramente qualcosa che abbiamo copiato dagli altri, come i concerti all’alba, che si facevano nei ‘Suoni delle Dolomiti’ a cui anche io ho partecipato. Nel Salento, invece, hanno adattato alcune cose che facevamo a Berchidda ad un luogo completamente diverso. È in fondo un percorso di crescita ed originalità comune”.

Cosa è cambiato in Sardegna da quando ha iniziato?

“Non so cosa sia cambiato, ma spero che qualcosa sia cambiato. In meglio. Il festival, per esempio, coinvolge sempre più giovani che lavorano come volontari e, attraverso il festival, si confrontano col mondo e vedono il loro paese con occhi nuovi: non come solo come un luogo da lasciare per andare nelle città, ma come un luogo in cui poter anche costruire delle cose che si portano fuori. È, per esempio. il caso del ‘Laber’, un ex edificio caseario che, per volontà del Comune, è diventato un laboratorio permanente per le arti. Un luogo in cui confrontarsi, sperimentare, crescere. Senza contare che il Festival produce risultati positivi anche nell’economia del paese. Quest’anno abbiamo visto decine di migliaia di presenze, è raddoppiato il numero degli abitanti: circa trentamila persone. A Nuoro, col ‘Seminario Jaz’z, accade in misura diversa, 120 alunni vengono dal continente e dall’Europa per undici giorni, e portano un pensiero diverso rispetto all’idea di cultura in città. Se in passato son dovuto partire dalla Sardegna per fare jazz, oggi molti ragazzi sardi, grazie al seminario di Nuoro, possono farlo qui almeno un periodo dell’anno. Non solo le cose migliori arrivano da fuori, ma molte cose si possono produrre in Sardegna. Mi sembra una bella metafora di una Sardegna che non vuole restare persa in mezzo al Mediterraneo, ma può diventare parte del mondo”.

A proposito, l’anno prossimo in Sardegna ci saranno le elezioni. Come vede questo appuntamento?

“Qualsiasi elezione è un momento importante. Perché si spera che ci sia una classe politica rinnovata che faccia meglio, e che sia più attenta ai problemi della gente. Spero sempre che le elezioni possano servire a dare una nuova visione delle cose. Il ricambio della classe politica è necessario non solo in Sardegna. Per avvicinare di più la gente alla politica. Per recuperare il nobile senso originario della politica, polis, come condivisione della città, della società. La Sardegna vive un momento tragico. Non c’è regione in Italia che sta vivendo una crisi economica, del lavoro, come quella della Sardegna. Abbiamo bisogno di persone nuove che possano vedere la Sardegna con altri occhi”.

Come vede la candidatura di Michela Murgia alle Regionali?

“La vedo bene, al di là di tutto. Devo essere sincero: in questo ultimo periodo non ho seguito le discussioni pubbliche sull’argomento. Per cui non mi permetto di entrare nel merito del programma politico di Michela. Credo che sia una persona seria, una persona che ha voglia di spendersi, che lo fa con forza. Vedo bene il fatto che ci siano persone della cultura che si impegnano su questi temi. Come dicevamo prima, la politica la possono fare tutti. Invece se un artista si impegna in politica quasi che si grida allo scandalo.È come dire che nani e ballerini vanno in Parlamento, ma gli artisti devono fare solo gli artisti. Lo dissero anche a me quando mi impegnai per le primarie del Partito democratico. Io risposi che finite le primarie sarei ritornato a fare quello che facevo prima. Poi mi chiesero di candidarmi per le Regionali e dissi di no. Mi chiesero di candidarmi per le Politiche e dissi di no. Per mia scelta. Avrei anche potuto dire di sì e non ci sarebbe stato niente di male. Ritengo che quando ci sono delle persone come Michela che hanno voglia di spendersi in un progetto politico, qualsiasi esso sia, ed hanno un pensiero credibile da portare avanti, sia positivo. Se si candidasse un medico, un avvocato, un giornalista nessuno avrebbe niente da dire. E poi, storicamente, nei banchi del Parlamento si sono seduti grandissimi intellettuali, grandissimi scrittori. E credo che abbiano dato un grandissimo contributo. Perché non dire lo stesso davanti alla candidatura di Michela?”

Forse perché l’arte è considerata come una cosa agli antipodi: o ‘borghese’ o di poco conto?

“Certo che se nel nostro paese l’arte (e dunque chi la fa) è ‘borghese’, e in quanto borghese è  elitario, e quindi produce una cosa effimera. Mentre l’arte dovrebbe essere di tutti, del pastore del contadino, del conducente di autobus, del medico, del dentista, di tutti. Così come la politica non dovrebbe essere solo dei medici o degli avvocati”.

Davide Fara

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