“Ridevamo degli americani, perché indossavano tute anti-amianto e maschere antigas. ‘Roba da seconda guerra mondiale’, commentavamo. Oggi, invece, moriamo perché non abbiamo preso quelle precauzioni: non erano degli stupidi, come pensavamo”. Gli americani sono quelli della Dow Chemical, multinazionale statunitense della chimica sbarcata ad Ottana nel 1995. “Il ricordo, invece, appartiene all’operaio dell’ex Enichem di Ottana morto di mesotelioma pleurico Giovannino Moro”, spiega Mario Murgia, emigrato sardo a Pisticci, Basilicata, dove è stato capo-tecnico dell’impianto gemello dell’Enichem di Ottana. Trent’anni sotto il cane a sei zampe e ora vicepresidente dell’Associazione italiana esposti all’amianto: questo il percorso personale di Murgia, in questi giorni in Sardegna per perorare la causa dei tanti operai di Ottana ammalatisi sul lavoro. E dimenticati da tutti.
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“Moro lavorava nel settore laboratorio dello stabilimento del centro Sardegna e lì si è ammalato, come ha certificato l’Inail cinque anni dopo la sua morte”, continua Murgia. Come? “Per un semplice motivo: era esposto alle fibre di amianto provenienti dalla sala condizionatori che si trova sopra il reparto in cui lavorava”. Già, come testimoniano anche le relazioni delle bonifiche dei primi anni 2000, le pareti della sala condizionatori (in tutto 1340 mq) erano rivestite di intonaco-amianto. Pertanto, le fibre del terribile asbesto venivano diffuse negli ambienti interni alla fabbrica sotto la spinta del flusso d’aria calda o fresca, a seconda delle stagioni. Come a dire: il tempo cambiava, ma l’amianto rimaneva.
“Certo, al tempo c’era scarsa consapevolezza“, commenta il vicepresidente Aiea, che da ex capo tecnico ha una conoscenza solidissima delle fabbriche di un passato affatto remoto, visto che l’amianto e gli altri veleni colpiscono ancora oggi. E continua a raccontare in che modo la scarsa consapevolezza si traduceva in noncuranza. “Ad Ottana, come a Pisticci, i quadristi avevano il compito di controllare i reattori, macchinari lunghi tredici metri al cui interno la temperatura saliva a trecento gradi”, spiega Murgia. In pratica, delle specie di impastatrici di polimeri propedeutiche alla produzione del poliestere. “Il punto è che, ogni ora e mezza, i quadristi avevano il compito di verificare attraverso delle spie visive (degli oblò, ndr.) ricoperte da cuscinetti di amianto che i macchinari stessero marciando correttamente: in pratica, questi operai ficcavano naso e occhi dove c’era l’amianto sfibrato dal caldo. E non era un amianto qualsiasi: si trattava di crocidolite ovvero del minerale più cancerogeno che l’uomo abbia mai estratto dalla terra”.
Murgia fa anche i calcoli: i cuscini di amianto di un metro quadro collegati alle spie visive pesavano 1,8 kg. E per ogni centimetro lineare contenevano 350.000 fibre di crocidolite, “il tipo di amianto più pericolos0”, precisa. Insomma, l’impatto sulla salute dei quadristi non può che essere stato devastante. I lavoratori di Ottana che hanno contratto il mesotelioma pleurico o il carcinoma polmonare – patologie collegate all’asbesto secondo le tabelle dalla stessa Inail (che, però, sostiene una presenza di amianto inferiore ai valori soglia in quel di Ottana) – si sono ammalati dunque in modi diversi.
Del modo in cui gli operai venivano a contatto con le fibre killer ne parla anche Luigi Chessa, il primo lavoratore Enichem di Ottana deceduto per mesotelioma pleurico, in un manoscritto oggi reso pubblico dalla moglie: “Sulle tubazioni di vapore, in tutto lo stabilimento, venivano montate guarnizioni ad alto contenuto di amianto. E quando si verificano perdite di vapore, che avvenivano migliaia di volte all’anno, la guarnizione veniva letteralmente sparata in aria e frantumata in piccolissime scaglie che poi rimanevano in sospensione”.
Per tutte queste ragioni la Aiea ha aperto un contenzioso con l’Inail e depositato un esposto alla Procura di Nuoro, che ha già provveduto a sequestrare diverse aree degli stabilimenti ex Enichem, trovandovi amianto e altri veleni.
Ecco cosa rimane di Ottana: veleni in quantità e un’amara storia operaia – simile a tante altre- da raccontare. Per non dimenticare, certo, e per fare giustizia, qualora venga dimostrato che questi lavoratori hanno ricevuto un trattamento discriminatorio rispetto agli operai di altri stabilimenti che hanno avuto accesso al riconoscimento della malattia professionale o a benefici pensionistici.
Piero Loi
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