LA STORIA. Pina Garau, medico in pensione che soccorre i migranti

Toccare il malessere e la sofferenza con le proprie mani, leggere la paura e il dolore da uno sguardo, un gesto: Pina Garau, cagliaritana, da una vita lavora per curare gli altri. Prima come chirurgo all’ospedale civile di Cagliari, poi con progetti di cooperazione internazionale. Oggi che è in pensione continua a portare soccorso a chi ne ha bisogno: da oltre un anno fa volontariato per i migranti soccorsi in mare.

Domenica inizierà un nuovo viaggio con la Fondazione umanitaria ‘Francesca Rava‘: appuntamento ad Augusta, porto militare in provincia di Siracusa, a bordo di una delle navi della Marina per un’impresa di circa 20 giorni in mare. “Il mio lavoro è quello di visitare i migranti salvati nel Mediterraneo, spesso sono in acqua da ore quando non da giorni, stremati e disidratati, alcuni di loro sono feriti, e ci sono tantissime donne in stato di gravidanza: cerchiamo di curarli con i mezzi che abbiamo”.p11

Con la prossima partenza saranno tre le missioni di volontariato a bordo delle navi militari per Pina Garau, la prima è stata nell’estate del 2015 sulla Spica, la seconda nell’agosto scorso con la Cigala Fulgosi, la stessa in cui è stata girata una parte del film documentario “Fuocoammare” di Francesco Rosi: tutte navi normalmente impegnate nel programma ‘Mare Sicuro‘ per la sicurezza dei pescatori e controllo della pirateria che, all’occorrenza, fanno da primissimo soccorso per chi rischia il naufragio.

Come i tanti migranti che a migliaia negli ultimi mesi attraversano il Mediterraneo sperando di approdare in Italia. Il copione lo conosciamo bene: si mettono in viaggio dall’Africa o dal Medio Oriente, dopo settimane o mesi raggiungono la Libia dove troveranno un ‘passaggio’ verso l’Italia pagando anche mille euro agli scafisti, sempre che non siano imprigionati nelle terribili carceri libiche. L’ondata migratoria sembra non fermarsi: in dieci mesi, dal 1 gennaio a oggi, sono 154.776 le persone sbarcate dalle coste africane in italia. Senza contare quelli che muoiono durante la traversata: l’Onu ha ricordato che il 2016 è stato l’anno con il numero maggiore di vittime in mare, l’ultima tragedia è di giovedì, 97 persone sono naufragate al largo delle coste libiche, tra di loro anche tre donne e un bambino. Viaggiano in condizioni terribili, stipati a centinaia in imbarcazioni da pesca sul ponte o rinchiusi in stiva, lasciati in balia delle onde dagli scafisti.

“L’allerta arriva da Roma, segnalano all’equipaggio che qualcuno è in pericolo e ha bisogno di aiuto – ci racconta Garau – l’elicottero di bordo parte immediatamente, verifica la segnalazione e la posizione. A quel punto la nave si avvicina ed entrano in azione i militari, controllano che i migranti non abbiano armi, che tra loro non ci siano feriti gravi. L’hangar della nave viene ‘allestito’ per la primissima accoglienza, i migranti portati a bordo verranno identificati dai militari uno ad uno e rifocillati. Riceveranno un braccialetto colorato, così che successivamente sarà più facile tenere uniti gruppi e famiglie, dato che la nave può soccorrere anche più barche all’interno della stessa missione”.

In un angolo dell’hangar poi viene ricavato uno spazio per il personale sanitario. “Qui lavoriamo noi medici volontari, in genere uno o due per missione: facciamo un primo controllo di routine dove verifichiamo le condizioni generali di salute, e poi un secondo per chi ha problemi più seri; arrivano da noi, oltre alle persone in stato di disidratazione o prostrazione per il viaggio, anche ustionati dal gasolio che si trova sul fondo dei barconi, oppure persone che sono state picchiate e hanno fratture nelle braccia o nelle gambe, o addirittura ferite d’arma da fuoco rimediate in Libia prima della partenza. Non abbiamo molti strumenti ma la Fondazione Rava ci mette a disposizione un ecografo, e poi ci sono le bombole di ossigeno, un defibrillatore, i farmaci generici dell’infermeria di bordo. I più gravi saranno trasportati con l’elicottero nell’ospedale più vicino. Incontriamo tante donne in stato di gravidanza, molte sono rimaste incinte a causa di violenze sessuali subite prima della partenza”.

Nei sei anni di collaborazione tra la Fondazione e la Marina Militare italiana sono partiti oltre 160 volontari tra medici d’urgenza, infermieri, ginecologi, ostetriche che hanno visitato più di centomila persone e oltre 500 donne incinte. “Viaggiamo con militari il cui compito primario è la sicurezza e non una missione umanitaria, c’è da sottolineare però che a bordo ho sempre incontrato persone di grande umanità. Ricordo, ad esempio, un capitano che guardava una giovane africana sofferente per un attacco di appendicite: l’uomo piangeva, si chiedeva cosa avesse affrontato durante il viaggio in Africa, pensava che sarebbe potuta essere sua figlia”. Tra i ricordi della dottoressa c’è anche quel militare che un giorno si unì all’allegria dei migranti che finalmente vedevano la terraferma: una ragazza aveva improvvisato una danza di gioia e lui si era messo a ballare con lei, poi si erano abbracciati. O i ragazzi dell’equipaggio che facevano giocare i bambini, gli unici che sembravano non rendersi conto del dramma che stavano affrontando.

 

“I migranti che soccorriamo sono stremati dalla fatica e si trovano ammassati a centinaia in uno spazio non attrezzato, senza poter riposare, fare una doccia, usare un bagno: è normale che la tensione salga. Questo modo di gestire i soccorsi tira fuori il peggio da tutti. Durante l’ultima missione avevamo addirittura mille persone a bordo, avevamo anche finito le coperte termiche. Un altro problema è il cibo: non esiste ovviamente un servizio di ristorazione e così il cuoco di bordo cucina per tutti, personale di bordo e migranti, con quello che c’è: riso, verdure bollite. E l’acqua non sempre è sufficiente: la nave non è attrezzata per ospitare persone”.

Una volta terminati i soccorsi, il capitano riceve indicazioni da Roma: continueranno il viaggio per soccorrere altri migranti, oppure chiameranno in aiuto le navi del programma internazionale Frontex per trasferirvi le persone: ad esempio la norvegese Siem Pilot o la spagnola Rio Segura che abbiamo visto in più occasioni anche negli scali isolani. L’ultima arrivata a Cagliari lo scorso 6 ottobre ha lasciato 1258 persone, tra cui 232 bambini e ragazzi.
Tutti a terra infine, da qui inizierà un altro viaggio: i migranti saranno accolti nei centri di accoglienza sparsi per il paese, alcuni di loro verranno subito espulsi, altri si perderanno.

Pina Garau si preparerà per una nuova missione. “Perché lo faccio? Credo che questa sia la più grande emergenza umanitaria e che tutti noi dobbiamo fare qualcosa. Può essere anche una piccola goccia, ma se crediamo ancora nei principi, nella solidarietà, nella testimonianza di quello che sta accadendo e nel fatto che questo mondo possa migliorare non possiamo farne a meno”.

(Le foto sono scattate da Pina Garau nell’agosto 2016)

Francesca Mulas

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