“Morto un dittatore ne sono nati altri cento”. È questa la frase che si pronuncia più spesso tra la strade di Baghdad per commentare il disastro sociale in cui si trova l’Iraq. L’avanzata dell’Isis nel nord del Paese si fa sentire di giorno in giorno: non certo tramite videomessaggi, così come può valere per l’Occidente, ma tramite il fragore delle autobombe e la strisciante minaccia di nuovi attentati. Un incubo che aggiunge instabilità a un contesto già duramente provato.
Tra le persone che vivono sulla propria pelle questa situazione c’è un giovane di Sorso, Carlo Cabras, 32 anni, che qualche mese fa ha scelto di lasciare la sua terra per vivere un’esperienza di missione proprio a Baghdad, attualmente una tra le città più pericolose al mondo. “Non è la prima volta che faccio una scelta del genere – racconta Carlo -. Sono già stato nel 2006 nel nord dell’Uganda. Questa volta ho deciso di partire sapendo del disastro umanitario in Iraq. Il nunzio apostolico aveva chiesto la presenza di alcuni membri della Comunità Papa Giovanni XXIII, di cui faccio parte, a causa dell’alto numero di orfani e disabili che avevano bisogno di assistenza o semplicemente di una figura di riferimento. E io ho dato la mia disponibilità perché sentivo forte il grido di quel popolo. Dopo una breve preparazione sulla lingua e cultura araba a Rimini – dove ha sede la Comunità – sono partito a febbraio 2015 e tornato a marzo. Poi sono ripartito ad aprile e ritornato a luglio. A breve sarò di nuovo a Baghdad. Sono pause non volute ma dovute ai problemi legati al visto. Ora torno in Iraq con la speranza di riuscire a rimanere almeno per un anno”.
I cristiani sono una delle minoranze religiose più a rischio. Carlo descrive ciò che ha visto: un altissimo numero di profughi, rifugiati e soprattutto bambini che chiedono ospitalità. “Stiamo nel cuore della città, in una zona centrale dove c’è una presenza della Chiesa cattolica di rito latino, tra cui anche una casa per disabili e orfani gestita dalla suore di Madre Teresa di Calcutta e un’altra struttura per disabili. A poca distanza da noi c’è un’area dove sono ospitate circa 50 famiglie di profughi cristiani fuggiti da Mosul”.
Si tratta di profughi fuggiti dai loro villaggi perché le milizie dell’Isis hanno messo davanti a loro tre scelte: o vi convertite, o pagate una tassa altissima oppure vi ammazziamo. Per questo motivo nelle zone occupate dalla ‘bandiere nere’ non sono rimasti più cristiani: ogni segno è stato eliminato, le chiese o sono state distrutte o riutilizzate come moschee. Molti hanno noleggiato minibus o camion affrontando un viaggio molto pericoloso, caratterizzato da gruppi armati magari non dell’Isis ma comunque dediti al sequestro di persone. Durante questo viaggio che può durare anche mesi, molti di loro si sono fermati in piccoli villaggi per chiedere ospitalità oppure si accampano direttamente nelle loro carovane. All’ingresso della città vengono bloccati per accertamenti, a meno che non ci sia stato un invito da parte della Chiesa che ha un ruolo di garante. La continua presenza di attentati genera ansia e impedisce il normale svolgimento delle attività quotidiane, come uscire al mercato o anche semplicemente dormire. Nel mirino dell’Isis ci sono anche gli sciiti, e il clima di terrore è diffuso in ogni quartiere.
“Quando ero lì ci sono stati diversi attentati: almeno tre o quattro vicino al mio quartiere. Ho trovato la scheggia di un’autobomba a pochi passi dalla mia abitazione”. Tuttavia non c’è spazio soltanto per la paura. “Mi ha colpito la reazione della gente di Baghdad. Dopo l’attentato si riparte con la vita di sempre. L’area non viene recintata come avverrebbe da noi, ma la sera stessa si riparte. È un popolo di una sensibilità estrema: gli iracheni hanno un forte desiderio di pace. Tanto che Baghdad si chiamava Medina al Salam, cioè la città della pace. Mi rimane impressa l’immagine di una donna che continua a coltivare dei fiori anche in questo contesto di pericolo. Per loro è importante continuare a coltivare la bellezza. Per me Baghdad è questa: una bellissima donna dal volto sfigurato. Probabilmente sono le donne il vero punto di forza di questo popolo perché mantengono e custodiscono la famiglia. Se loro si fermano, si ferma la civiltà araba. La lotta al terrorismo non la si può fare con gli aerei o i servizi segreti. È la donna che ha il potenziale di creare relazioni. Se mi chiedete quale sia la strada per uscire dall’incubo dell’Isis – conclude Carlo Cabras – non ho una risposta pronta, ma di sicuro la strada giusta è quella di offrire alle donne l’accesso alla cultura e all’istruzione. Questo Paese ha bisogno di recuperare la propria identità, legata da sempre a una cultura di pace: è una sfida educativa”.
Michele Spanu
Twitter @MicheleSpanu84