I nuovi schiavi a pochi passi da noi: lavorare in nero nelle campagne sarde

Non hanno un volto, né un nome. L’unica cosa che portano in dote quando arrivano nei campi sono le loro braccia. Sono rumeni, macedoni e bulgari. Centinaia di lavoratori giunti dall’Europa dell’est alla ricerca di una busta paga.  Lavorano da anni come pastori e agricoltori con la stessa energia dei nostri nonni. Conoscono il sardo, hanno imparato a memoria i nomi dei fiumi e delle valli che abbiamo dimenticato. Li possiamo trovare nelle serre del Campidano, negli uliveti tra Sassari e Alghero, negli ovili della Barbagia. Sono giovani, ma non più giovanissimi. Alcuni sono riusciti a integrarsi con i loro coetanei e di sera vanno al bar. Altri preferiscono lavorare a testa bassa, gli occhi fissi sul terreno.

Il meccanismo che li ha condotti nell’Isola ha un nome: lavoro in nero. Mimmo Serusi, della direzione distrettuale del lavoro di Oristano, conosce il problema da diversi anni. “Si tratta di lavoratori che provengono in gran parte della Romania, quindi sarebbe un errore definirli stranieri o extracomunitari”. Eppure, le logiche dello sfruttamento non si fermano davanti alla carta d’identità. Turni massacranti,  superiori alle 8 ore al giorno previste dalla legge. Retribuzioni molto più basse rispetto a un lavoratore in regola. E poi, contributi non versati nelle casse dell’Inps, perché il lavoro nero è anche questo: migliaia di euro in meno per lo Stato.

“Fortunatamente – prosegue Serusi – nell’Isola non esistono dinamiche come quella del caporalato, presente nel resto d’Italia. Qui da noi le aziende sono piccole e il reclutamento avviene tramite il passaparola”. È così che il fenomeno si propaga: se c’è un lavoro disponibile e un rumeno non può farlo perché impegnato altrove, si occupa di trovare un suo parente. Molti imprenditori agricoli preferiscono muoversi così, senza alcuna ricerca “ufficiale” di personale, lasciando ai braccianti anche il compito di organizzarsi tra di loro. È stessa logica schiacciante di uno sfruttamento inconsapevole. “Alcuni rumeni si avvicinano nei nostri uffici dopo aver sperimentato cosa significa lavorare in nero. Ci raccontano le loro condizioni e chiedono una regolarizzazione”, dicono gli ispettori del lavoro. Ma ciò che non si può misurare è il lato sommerso del fenomeno: i lavoratori che non alzano la voce, non reclamano i loro diritti e ancora oggi continuano ad essere sfruttati dopo anni e anni piegati sui campi.

Nonostante la gravità del fenomeno, nessuno si lamenta. Il motivo è semplice. Se in un qualsiasi paesino della Sardegna proviamo a chiedere cosa si pensa dei rumeni nelle campagne, la risposta è pronta. “Fanno lavori che un sardo non farebbe”. E subito dopo, qualcuno aggiunge: “Lavori che un sardo non farebbe, a quelle condizioni”. Tra gli ovili che circondano la Barbagia, la mutazione antropologica è già avvenuta: i servi pastore sono quasi tutti rumeni. In pochi sono regolarizzati. Forse perché in questa zona della Sardegna lo sfruttamento è ancora più intenso a causa della durezza di un lavoro che non risparmia nessuno, indipendentemente dalla sua provenienza. Lavorano 24 ore su 24 perché il loro compito è sorvegliare il gregge di notte, farlo pascolare di giorno, evitare assolutamente guai o incidenti al bestiame. Una responsabilità altissima, che un sardo non accetterebbe di certo per una manciata di euro al mese.

Per far fronte a questa nuova ondata di lavoro “low cost”, gli ispettori del lavoro, in stretta collaborazione con l’Arma dei carabinieri, hanno intensificato i controlli nell’agro e negli ovili. Una campagna straordinaria promossa dal governo nazionale dopo la morte di due donne nei campi della Puglia, entrambe vittime del caporalato. I risultati sono arrivati in pochi giorni: diversi lavoratori in nero, quasi tutti romeni, impiegati in due aziende agricole dell’Ogliastra, sono stati scoperti dai carabinieri nelle campagne di Jerzu, Cardedu e Tertenia e i due imprenditori che li avevano reclutati dovranno regolarizzarli e pagare i contributi. Il blitz è stato eseguito dai militari della compagnia di Jerzu e del Nucleo ispettorato del lavoro di Nuoro, in sinergia con la Direzione territoriale del lavoro del capoluogo barbaricino. Altre operazioni si sono svolte nel Campidano e alcune sono in programma per i prossimi giorni.

Ma per combattere il lavoro nero non basta intensificare i controlli: serve una nuova cultura della legalità. È questa la strada sulla quale insistono le associazioni di categoria come la Coldiretti. “Siamo da sempre attenti al problema del lavoro nero – racconta il presidente di Coldiretti Sassari-Gallura Battista Cualbu – non solo quando giustamente si accendono i riflettori dei media e dell’opinione pubblica. E’ una piaga che stigmatizziamo e combattiamo diffondendo la cultura della legalità. Come organizzazione abbiamo presentato a livello nazionale una proposta di legge ed un progetto e un patto di emancipazione per chi oggi lavora in condizioni di illegalità”.

Proprio per favorire la legalità e aiutare gli imprenditori agricoli a farlo si sta attivando anche la Federazione interprovinciale della Coldiretti potenziando i suoi servizi. “Iniziamo con l’ufficio di Santa Maria la Palma – spiega il direttore della Coldiretti Sassari-Gallura Francesco Ciarrocchi – con l’apertura dell’ufficio lavoro che sarà a disposizione degli imprenditori agricoli dalle 11 alle 13. Da lì estenderemo il servizio in tutto il territorio. In questo modo renderemo più agevole l’iter indispensabile per regolarizzare i dipendenti”.

Michele Spanu

Twitter @MicheleSpanu84

 

LEGGI ANCHE: “La testimonianza di un rumeno: “So che non ho gli stessi diritti dei sardi”

Lavoro nero, Coldiretti: “Ci vogliono legalità e più servizi”

 

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