“I medici tacevano, ma quando mio figlio piangeva si capiva che era down”

Intervista a Vittoria Serra, mamma di Simone, un ragazzo down di 24 anni. Ecco il suo racconto.

Vittoria Serra aveva già un bambino di sette anni, quando è nato Simone, il 9 settembre del ’91. Fu un parto prematuro. “Per choc: il giorno prima mi dissero che il bambino poteva essere down”. Simone aveva sette mesi.

Cosa c’è di peggio dopo il dubbio?

Io non ho visto Simone per cinquanta giorni. Subito dopo il parto è stato operato d’urgenza e poi messo in un’incubatrice. Allora nel reparto di chirurgia pediatrica non si poteva nemmeno entrare nella stanza. Il bambino lo vedevamo da un vetro. La sua culla era l’ultima in fondo.

L’abbraccio con Simone quando è arrivato?

Il 31 ottobre del ’91. Quel giorno Simone è tornato a casa. La ricordo benissimo la nostra felicità. Assoluta.

Le avevano già confermato che il bambino era down?

No. I medici continuavano a non esserne certi. Mi dissero che aveva dei problemi, ma non ancora individuati. Io, però, l’avevo capito. E anzi: davanti alla possibilità che potesse essere qualcosa di drammatico, mi auguro che fosse solo down.

Da cosa l’aveva capito?

Me n’ero accorta quando piangeva: il viso di Simone era come se si raggrinzisse. Sembrava un vecchietto. I tratti diventavano tipici delle persone con la sindrome di down.

Simone quando si è accorto di essere down?

Non credo ci sia stato un momento. Simone si è sempre guardato allo specchio con molta soddisfazione.

Con il primogenito come avete gestito la diversità di Simone?

Avere un figlio più grande ci ha aiutato a superare la paura di parlarne: farlo era un obbligo. Ma quei cinquanta giorni con Simone all’ospedale sono stati difficilissimi: io avevo partorito, ma a casa non avevo portato alcun bambino. Il figlio grande, infatti, non raccontò a nessuno dell’arrivo del fratellino, sino a quando non lo vide.

Quanto ci è voluto perché i medici certificassero la sindrome?

Nove mesi. Mi chiamò il professore Cao. Accanto a lui c’era la sua équipe. Io risposi freddamente, quasi seccata. Dissi loro che lo sapevo, perché con mio figlio ci vivevo. Ne sentivo ogni respiro.

La certezza medica ha cambiato qualcosa?

Simone ha cominciato il percorso terapeutico-educativo nel centro down, questa è stata la novità. Ci siamo rimboccati le maniche. Simone è un figlio desiderato e cercato.

Ha mai fatto sconti a Simone in quanto down?

Assolutamente no. Quando i bambini sbagliano, si spiegano loro gli errori. Simone è capace di un’assunzione di responsabilità. E a questo lo educhiamo quotidianamente.

Simone saprebbe vivere da solo?

Arriverà il giorno che io e mio marito mario non ci saremo più. Tutto quello che insegniamo a nostro figlio c’entra con quel momento. Io auguro a Simone una vita lunghissima, quindi deve saper essere autonomo. Di tanto in tanto lo faccio pure stirare. Vero che ha un fratello, col quale si adorano. Ma il primogenito ha diritto alla sua vita.

Nella diversità il problema, spesse volte, sono gli altri. Sono le reazioni non prevedibili.

Abbiamo cercato di contenere questa paura, concedendo a Simone porzioni di libertà sempre maggiori. E lo abbiamo fatto dopo che un giorno è scappato da casa. La psicoterapeuta ci disse che quel gesto era un bisogno di autonomia. Poco alla volta a Simone abbiamo insegnato ad andare a scuola da solo. Certo, lo guardavamo dalla finestra di casa. Ma lui, finalmente, usciva senza genitori, come desiderava.

Prega mai?

Senza la fede non ce l’avremmo fatta. Io ringrazio per questo dono che mi è stato dato. Con Simone ho scoperto un modo che, diversamente, non avrei conosciuto. E pure lui in chiesa ci va volentieri. La mattina della cresima mi disse che si sentiva vibrare dentro.

Quanta ansia c’è nello scrutare vostro figlio?

A volte ci sorprende per i progressi, per le cose che dice. Altre ci intenerisce per i suoi limiti, per quanto non ha ancora imparato.

Alessandra Carta
(@alessacart on Twitter)

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