Se poco più di due anni fa avessero prospettato la celebrazione di una giornata nazionale per le vittime del Covid, in tanti avrebbero assunto l’espressione assente, tipica di chi nemmeno sa cosa sia questa malattia. Eppure due anni dopo la Sardegna, così come accade in tutta Italia, ricorda le vittime di questo virus che sono 2.147: sette soltanto oggi.
Molte di queste persone, soprattutto durante il lockdown, per cause di forza maggiore, sono morte in solitudine, accompagnate dal sottofondo del ronzio di una terapia intensiva, una luce artificiale incapace di scandire il tempo. Oppure in casa, aspettando che un sistema sanitario impreparato (non colpevole) riuscisse a far fronte al moltiplicarsi delle emergenze. Tante le persone che non son riuscite a dare o avere l’ultimo abbraccio. I funerali erano diventati una celebrazione per pochi intimi, senza la possibilità di condividere il dolore. Si moriva e si soffriva in solitudine.
La pandemia ha attraversato cambi di Governo, l’arrivo dei vaccini e le divisioni che questi hanno causato. Ma soprattutto ha cambiato il modo di vivere delle persone che ormai hanno accettato la mascherina come un accessorio quotidiano, quando prima era qualcosa che raramente si vedeva. Nella giornata dedicata alla memoria delle vittime, però, è giusto soffermarsi sulle tante persone colpite da questo virus inizialmente sconosciuto, aggressivo e senza pietà.
La scelta di fissare il 18 marzo come data per questa giornata è stata presa, l’anno scorso, dalla commissione Affari costituzionali del Senato, ricordando il 18 marzo del 2020 quando a Bergamo i camion dell’Esercito portavano via le vittime da cremare.