Fondi ai gruppi, ecco “la madre di tutti i peculati”

Spunta la delibera che nel ’93 introdusse l’obbligo della rendicontazione ma senza allegare fatture. I fondi ai gruppi erano per i consiglieri una paghetta aggiuntiva?

A distanza di 21 anni spunta la deliberazione che può essere considerata la madre di tutti i presunti peculati commessi, tra il 2004 e il 2014 (legislature XIII e XIV), dai 65 consiglieri regionali finiti sotto inchiesta per i fondi ai gruppi. Perché da lì sarebbe derivata la cattiva abitudine del Palazzo di assegnare quei soldi pubblici ai consiglieri nella forma di una “paghetta aggiuntiva”. Senza controllo e come anticipazione di spese future.

La deliberazione in questione è la numero 293: il 5 ottobre del ’93 la firmò l’Ufficio di presidenza dell’Aula guidata allora da Mariolino Floris, uno dei 20 consiglieri già rinviati a giudizio nell’ambito della prima indagine aperta cinque anni dal pm Marco Cocco, titolare anche dell’inchiesta bis avviata nel 2013.

La madre di tutti i presunti peculati vale 6 articoli entrati in vigore il 1° gennaio del ’94 e coi quali l’Ufficio di presidenza regolamentò l’utilizzo dei fondi ai gruppi introducendo, per la prima volta nella storia autonomista, l’obbligo della rendicontazione. Ma senza allegare pezze giustificative. In quattro pagine, ecco elencate le spese possibili, cioè quelle rimborsabili con soldi pubblici perché considerate attività politica. Si andava dal “personale assunto nei gruppi” a “studi, ricerche, convegni, consulenze, beni e servizi acquistati”. A seguire, il modulo prestampato, da compilare per ottenere la restituzione dei costi sostenuti “nell’esercizio delle funzioni da consigliere regionale”. Il modulo era diviso in riquadri. In quello relativo alle “spese per il personale”, ad esempio, bisognava semplicemente indicare se si trattava di “retribuzioni, contributi previdenziali o collaborazioni”.

L’inghippo per gli imputati (ma il quadro accusatorio è identico per gli indagati) sta nel fatto che nel modulo c’è una voce non prevista in nessuno dei 7 commi dell’articolo 3 in cui sono indicate le spese ammissibili. La voce ‘incriminata’ è il punto 6.2, dove si parla di “Rimborso per attività da svolgere”. Attività futura: un assurdo concettuale, visto che i rimborsi per loro natura sono erogati a fronte di spese già fatte. Invece quei soldi – è l’accusa della Procura – venivano assegnati in anticipo. Ed erano 2.500 euro mensili a consigliere che, secondo il pm, hanno determinato il peculato. Perché si trattava di risorse pubbliche e, come tali, non potevano transitare nei conti correnti bancari dei consiglieri. Ma, soprattutto, dovevano essere utilizzate solo per fini istituzionali.

Sul possibile malcostume della paghetta, il pubblico ministero ha sentito ieri mattina Paolo Maninchedda, l’attuale assessore ai Lavori pubblici, fondatore e leader del Partito dei Sardi, eletto nel 2004 con Progetto Sardegna e nel 2009 col Psd’Az. Maninchedda è uno dei rari consiglieri di lungo corso non sfiorati dall’indagine, perché dall’esame fatto dalla Procura è risultato che sul suo conto in banca non sono mai transitati i 2.500 euro mensili dei fondi ai gruppi. All’assessore, citato infatti come testimone dell’accusa, il pm ha chiesto se la “paghetta” fosse prassi e Maninchedda ha confermato che era un costume diffuso, indotto dalla deliberazione dell’Ufficio di di presidenza.

Le difese degli imputati, invece, stanno scommettendo tutto sull’articolo 1 della deliberazione 293, dove è scritto  che “non è richiesta la documentazione delle spese”. Ma, secondo il pm, le fatture e le ricevute vanno conservate sempre e comunque, quando si maneggiano soldi pubblici. Anzi, il loro utilizzo bisogna dimostrarlo “in maniera puntuale e coeva”, è la posizione della Suprema Corte citata dal pm in più di un’occasione, insieme agli articoli 3, 81, 97, 100 e 103 della Costituzione.

Alessandra Carta
(@alessacart on Twitter)

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