Falcone-Borsellino, sbarco all’Asinara: lavoro di Stato, pagato di tasca propria

“Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”. Sono le parole del magistrato siciliano Paolo Borsellino scritte sul marmo bianco della targa ricordo affissa sulla parete esterna della foresteria di Cala D’Oliva, nell’isola dell’Asinara. Sulla targa c’è anche la frase del collega Giovanni Falcone, che spiega: “La mafia non è affatto invincibile: è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine”.

La casermetta di mattoni rossi affacciata sul mare turchese dell’isola-penitenziario ospitò, dal 5 al 30 agosto del 1985, i due magistrati e le loro famiglie in un momento storico, e per certi versi irripetibilmente crudele, della lotta dello Stato contro la mafia. Falcone e Borsellino, sradicati di peso dalle loro case e dal loro ufficio per evitare d’essere travolti dalla furia omicida del capo dei corleonesi, Totò Riina, vennero trasferiti a notte fonda con i loro familiari da Palermo ad Alghero, con un aereo militare. Quindi, sempre nella massima segretezza, vennero accompagnati a Porto Torres a bordo di blindati e infine, su alcune motovedette, sbarcati Cala Reale, confinati su un’isola a loro sconosciuta.

GUARDA LE FOTO: Falcone e Borsellino all’Asinara, viaggio nella memoria

Lo aveva preteso e voluto il capo del pool antimafia di Palermo, Antonino Caponnetto, dopo che le voci di attentati in preparazione contro i due magistrati erano trapelate dalle diverse carceri italiane. Falcone e Borsellino dovevano completare e concludere la requisitoria per il maxi processo a ‘Cosa nostra’ che portò , due anni dopo, alla condanna dei boss e dei loro affiliati per un totale di 19 ergastoli e 2.665 anni di pena. Una condanna che decretò la loro morte, come profetizzò Paolo Borsellino nel luglio del luglio 1992, in un’intervista a Lamberto Sposini: “Guardi, io ricordo ciò che disse Ninnì Cassarà (poliziotto ucciso dalla mafia nell’estate del 1985), allorché ci stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il commissario della Squadra mobile di Palermo, il dottor Beppe Montana, alla fine del luglio del 1985. Mi disse: ‘Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano'”.

A Borsellino e Falcone – “servitori dello Stato”, come loro stessi amavano definirsi – la Regione sarda ha intitolato la caserma del Corpo forestale e di vigilanza ambientale, quando nel 1998 l’isola dell’Asinara è diventata Parco Nazionale. I forestali domenica scorsa, nell’ambito di ‘Monumenti aperti’, hanno voluto ricordare con una breve ma toccante cerimonia i due magistrati, gli uomini e donne di scorta uccisi nei due attentati di mafia e le loro famiglie allestendo, nella sala dove venne siglato l’atto finale contro la mafia, un permanente percorso fotografico e documentale che ripercorre quegli esaltanti e tragici momenti della storia italiana. Una sala che sarà visitabile da istituzioni e scolaresche (si tratta di una struttura militare, chiusa al pubblico) che ne faranno richiesta.

“Era doveroso, da parte nostra – ha spiegato Giancarlo Muntoni, direttore dell’Ispettorato forestale e Corpo di vigilanza ambientale della provincia di Sassari – mantenere vivo il ricordo e l’insegnamento dei due magistrati, il loro monito di non abbassare la testa davanti alla mafia o alla criminalità. Per questo motivo la struttura a noi affidata è stata restaurata e sarà mantenuta, con ulteriori interventi di manutenzione, nello stato in cui venne abitata da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e dai loro familiari”.

GUARDA I VIDEO. Omaggio a Falcone e Borsellino: la mostra sui due “servitori dello Stato”

Una foresteria, quella adagiata sugli scogli Cala d’Oliva, che dista poche centinaia di metri, in linea d’aria, dal carcere-bunker che ospitava, all’epoca della stesura della requisitoria del maxiprocesso alla mafia, il capo della Nco (la nuova camorra organizzata) Raffaele Cutolo. Il quale, da poeta come sostiene d’essere, cantava giorno e notte melodie napoletane. Lo stesso bunker nel quale, per la legge del contrappasso, venne ‘sepolto vivo’ nel 1993 il capo dei capi della mafia, il corleonese Totò Riina, “u’curtu”, che al suo sbarco all’Asinara ebbe a dire “me la pagheranno”.

A guardia di Totò Riina, unico detenuto per diversi anni di quel bunker perennemente illuminato, tanto da essere chiamato dagli agenti della polizia penitenziaria “la discoteca”, c’erano un centinaio di agenti della penitenziaria a terra e in mare, sulle motovedette, che vigilavano 24 ore su 24. Decine di telecamere, collegate ad un sofisticato sistema di registrazione, lo osservavano senza soluzione di continuità. Le bobine, dove anche il respiro del sanguinario boss veniva registrato, finivano in un archivio a cui aveva accesso il solo direttore del carcere, l’incorruttibile e serissimo Francesco Massidda.

Quando Borsellino e Falcone approdarono nell’isola con le loro famiglie, il funzionario dell’amministrazione penitenziaria li accolse con un “benvenuti, ma non saprei dire quanto”. Massidda, coadiuvato da Giommaria Deriu, allora giovanissimo sottufficiale della Squadra nautica della polizia penitenziaria (in quegli anni venivano chiamati agenti di custodia), mise a disposizione dei giudici istruttori tutte le strutture dell’Asinara chiedendo loro, però, di consegnare le pistole in dotazione. “È il regolamento”, disse il direttore del carcere  scusandosi con Falcone e Borsellino. E fu soprattutto quest’ultimo a vivere sull’isola anche momenti drammatici per via di Lucia, la figlia più giovane, che cadde in uno stato di prostrazione psicofisica che le impediva di mangiare: Paolo Borsellino, contravvenendo a tutto e tutti, prese l’aereo e riportò la figlia a Palermo, dove venne curata e accudita da parenti.

GUARDA LE FOTO: L’isola del carcere duro: bunker e celle per i capi di ‘Cosa nostra’

Di certo all’Asinara i due magistrati conclusero il loro impegno giudiziario sospendendo il loro lavoro soltanto per i pranzi e per le cene, preparati da uno dei detenuti ‘sconsegnati’ (in pratica libero) ma sottoposto a severi controlli fisici quotidiani da parte della polizia penitenziaria, degli agenti della Digos e dei carabinieri che facevano capo ai reparti speciali creati da Carlo Alberto Dalla Chiesa. Tutti militari che, durante al permanenza dei due magistrati, presidiavano un’isola già abbondantemente controllata.

Il soggiorno costò ai due magistrati 415mila lire a testa: questo il conto (rimborsabile per motivi di servizio) che l’amministrazione penitenziaria mandò a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per il pernottamento e i pasti consumati nella foresteria, la casetta rossa di Cala D’Oliva. I due, con l’innata signorilità che li contraddistingueva, non presentarono mai domanda di rimborso, ma a più riprese ironizzarono sull’episodio.

La casermetta del Corpo forestale viene visitata ogni anno da migliaia di giovani e turisti che sbarcano nell’isola alla ricerca di un ambiente rimasto incontaminato nel tempo per la presenza di un lazzaretto e della colonia penale che hanno preservato il territorio da speculazioni edilizie e dall’inquinamento urbano. Ma l’Asinara resta un luogo della memoria carceraria, fatta anche di una rivolta. A cui Sardinia Post dedicherà il prossimo approfondimento.

(1 – continua)

Giampiero Cocco

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