Che fine ha fatto il femminismo? Se lo chiede in questi giorni il settimanale L’Espresso con un’inchiesta dal titolo “Le donne hanno perso”. In copertina c’è un gruppo di Femen, le giovani ucraine che da anni usano il nudo per attrarre l’attenzione sulla parità dei diritti; tra le opinioni ci sono quelle di Dacia Maraini, Lidia Ravera, Chiara Saraceno, tutte concordi nel dire che siamo ben lontani dalla conquista dell’uguaglianza tra uomo e donna, che il salario femminile è ovunque più basso di quello maschile, che ancora la libertà è limitata da infinite barriere sociali, educative, lavorative, religiose. Si accusano anche i movimenti popolari come Se Non Ora Quando, che nel 2011 hanno portato nelle piazze italiane un milione di persone, di aver perso la loro efficacia. E dunque anche noi ci chiediamo: a che punto sono le conquiste femminili in Sardegna?
A un punto morto, se guardiamo la massima assemblea sarda: nel Consiglio Regionale, l’organo che si occupa di leggi e bilancio isolano, su sessanta consiglieri solo quattro sono donne. Un dato avvilente corredato da una legge elettorale che non garantisce parità in politica: nel giugno 2013 la proposta per introdurre la doppia preferenza di genere nei criteri elettorali è stata bocciata con voto segreto. Un anno fa alcuni consiglieri hanno vinto un ricorso contro la stessa legge regionale sulla parità di genere violata, facendo paradossalmente entrare in assemblea altri uomini. Da un’analisi pubblicata su Sardinia Post il giorno dopo le elezioni regionali abbiamo visto che le donne non hanno votato altre donne: su quasi 400mila votanti solo 11mila hanno dato la loro preferenza alle candidate.
Non va meglio se guardiamo i più grandi comuni dell’Isola: Sassari ha 10 consigliere su 33, Nuoro 7 su 24, Oristano 4 su 15, una media di una su tre. Malissimo a Cagliari: tra quaranta rappresentanti solo due donne. Il capoluogo recupera terreno sul fronte universitario: alla guida dell’Università di Cagliari c’è Maria Del Zompo, farmacologa, in tutta Italia esiste solo un’altra Rettore donna. E poi rettore o rettrice? La parità scivola anche sul linguaggio e i nomi del potere sono ancora in gran parte declinati al maschile: assessore, direttore, presidente, sindaco.
“La scarsa presenza femminile nei posti di governo e di potere non ci stupisce – commenta con amarezza Lilli Pruna, sociologa e curatrice del ‘Rapporto sul mercato del lavoro’ – le regole di accesso le definiscono quelli che stanno dentro, che sono in larga maggioranza uomini e scelgono preferibilmente altri uomini. Ci sono ancora professioni e gerarchie professionali in cui si prediligono le figure maschili, così come ce ne sono altre che sembrano destinate solo alle donne: queste ultime mostrano quasi sempre condizioni di lavoro e di carriera peggiori. Nelle forze armate, ad esempio, l’ingresso delle donne è stato percepito come una ‘invasione di campo’ ma in realtà la presenza femminile si è fermata al 4% del personale militare. Negli ambienti dell’alta finanza, in cui le donne sono pochissime, basta l’ingresso di qualcuna per sentire affermare che ormai non ci sono più disparità di genere. Alcune specializzazioni mediche, quelle a cui è associato maggiore prestigio e più elevati guadagni, sono ancora largamente maschili, mentre nel campo dell’insegnamento, che è a maggioranza femminile, gli uomini aumentano man mano che si sale nel grado di istruzione e di (relativo) prestigio sociale”.
Già, l’insegnamento, ambito che per lungo tempo è stato declinato al femminile: “Le maestre della scuola primaria sono quasi tutte donne – prosegue Pruna – nelle scuole superiori ci sono anche molti uomini. All’università le donne si concentrano nei livelli inferiori della gerarchia accademica come ricercatori, mentre sono molto poche tra i professori ordinari. La maggior parte dei presidi sono uomini, fanno eccezione le facoltà di Ingegneria e Architettura e di Scienze a Cagliari e il dipartimento di Scienze Politiche a Sassari”.
Se gli uomini occupano i posti specializzati e di alto livello alle donne non resta molto: “Ci sono più donne nelle professioni che godono di minore riconoscimento sociale, sia in termini di prestigio che di retribuzione: l’assistente sociale è la professione più femminilizzata in assoluto, perché è un lavoro di relazione, di grande responsabilità, che però gode di uno scarso riconoscimento sociale. È indubbio che ci troviamo in condizioni di svantaggio e discriminazione esplicite o latenti: la società italiana non favorisce la partecipazione femminile al lavoro, i servizi per la famiglia sono insufficienti e molte lavoratrici si trovano a dover scegliere tra famiglia e professione.”
E dunque torniamo alla domanda di partenza: che fine ha fatto il femminismo?
“Oggi si crede sia una cosa inutile che appartiene al passato. Non si pensa invece che i diritti acquisiti, i diritti di scegliere per la propria vita e di essere libere, vanno conservati e difesi perché si perdono in un attimo. Il femminismo ha certamente cambiato il suo linguaggio ma non si è fermato”.
Una battaglia che va combattuta quotidianamente su più fronti, dalla società all’educazione, dal lavoro alle istituzioni. E tra le stesse donne, come ci ricorda il caso della presidente della Commissione Pari Opportunità della Regione Sardegna, che qualche giorno fa si è lasciata andare a uno sfogo su facebook contro alcune donne ‘troie nel dna’. “Il colmo dei colmi, una clamorosa vergogna – sottolinea Lilli Pruna – come possiamo pretendere rispetto e un’attenzione seria su questi temi se le istituzioni e le persone che le rappresentano (uomini o donne) esprimono pensieri gravemente offensivi e hanno atteggiamenti sessisti?”
(in foto, la manifestazione femminista “Se Non Ora Quando?” del 13 febbraio 2011 a Cagliari)
Francesca Mulas
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