Si è sempre professato innocente e probabilmente lo è. Beniamino Zuncheddu è da 33 anni in carcere per un triplice omicidio – e un tentato omicidio – con una condanna basata su una prova molto dubbia. Ora il caso è tornato d’attualità perché il suo avvocato, Mauro Trogu del foro di Cagliari, è riuscito a ottenere la discussione della revisione del processo per provare a dimostrare l’innocenza del suo assistito.
Il caso risale all’8 gennaio del 1991, quando tre persone vengono uccise, e una quarta gravemente ferita, in un ovile nei monti di Sinnai. Le indagini vengono orientate immediatamente su possibili conflitti all’interno del mondo agropastorale. Il testimone, l’unico superstite, racconta inizialmente che non poteva identificare l’omicida perché il suo volto era travisato da un collant da donna. Per 40 giorni conferma la versione fino a quando decide di presentarsi dal pm dando una descrizione dettagliata dello sparatore, sostenendo di aver mentito inizialmente per paura di possibili ritorsioni. “Il testimone fornisce una descrizione del volto che corrisponde a una fotografia che gli verrà mostrata pochi giorni dopo – racconta l’avvocato ai microfoni di Radio Radicale (nel programma di Irene Testa, Lo stato del diritto) -. Il sospetto forte è che un poliziotto che seguiva il caso avesse fatto pressioni sul testimone al fine di convincerlo che Beniamino fosse responsabile degli omicidi, e che gli avesse mostrato prima la foto che poi ha portato al suo riconoscimento. Nel corso del dibattimento ammisero che il poliziotto si presentò diverse volte in ospedale e a casa del ferito. Ma nessuno ammise che gli avesse mostrato la foto prima del riconoscimento”.
Ma sulla base di alcune intercettazioni disposte dal procuratore generale per la revisione del processo, dopo un interrogatorio in Procura il testimone parlò al telefono con la moglie, con tono disperato: “Hanno detto molte verità, hanno capito molte cose, hanno capito che il poliziotto mi ha fatto vedere la foto prima”, sono le parole del superstite riferite dall’avvocato e depositate tra gli atti nella revisione del processo. “Strano poi che il testimone non abbia chiamato il suo avvocato ma il poliziotto il giorno prima di essere sentito. Era già preoccupato di quello che gli avrebbero potuto chiedere. Il poliziotto gli ha detto che era meglio che vedersi in quel momento, non farsi vedere insieme. Se uno non ha niente da nascondere queste cautele sembrano eccessive”. Zuncheddu è stato condannato all’ergastolo per quell’unica, fragile prova.
Beniamino, originario di Burcei, faceva l’allevatore in una zona lontana dalla scena del delitto. Sosteneva di avere un alibi. “Il giorno ero in campagna come tutti i giorni e al rientro ho incontrato delle persone – racconta ai microfoni di Radio Radicale -. All’ora dell’omicidio ero a casa di un amico, che ha testimoniato per me, come la madre, la sorella. In paese a Burcei ci sono state molte testimonianze e petizioni sulla mia innocenza. Non c’entro niente”. Per la revisione di una sentenza passata in giudicato devono essere portate nuove prove a sostegno. L’avvocato contatta Simone Montaldo, psicologo della testimonianza, che prende visione della sentenza e dice che la modalità di acquisizione delle parole del superstite poteva essere aspramente criticata sulla base di nuove acquisizioni scientifiche. Fortuna ha voluto che l’ovile sia rimasto identico dal giorno del delitto a oggi ed è stato possibile ricostruire la scena del delitto, grazie all’aiuto di un carabiniere – il colonnello Matteucci – che ha potuto ricostruire gli omicidi. “E questa ricostruzione ha confermato l’impressione che avevamo avuto a occhio nudo – racconta Trogu -. Dentro la stanza di quell’ovile, per il buio, nessuno avrebbe potuto riconoscere i lineamenti del volto in modo così dettagliato. Era impossibile discernere dettagli che il testimone attribuì a Beniamino. Poi sono emerse alcune palesi bugie. Non coincidevano le posizioni in cui lui disse di essersi trovato per giustificare la sua capacità di riconoscere Zuncheddu”. Parecchi testimoni poi hanno confermato che il condannato non avesse mai avuto un fucile, praticato la caccia: non aveva confidenza con le armi da fuoco.
“Il procuratore generale ha preso in seria considerazione in materiale e disposto ulteriori accertamenti. Ha trovato numerosi punti di collegamento tra questi omicidio e un altro delitto. Il procuratore non ha creduto che quei delitti fossero maturati in un contesto agropastorale. Gli omicidi si sono consumati con modalità d’azione da professionisti, così si mise alla ricerca di punti di contatto con altri fatti. In quel periodo risultava sotto sequestro Giovanni Murgia di Dolianova: era stato prelevato a pochi chilometri di distanza, circa due mesi e mezzo prima. E venne liberato guarda caso tre giorni dopo gli omicidi. La tesi nella richiesta di revisione è che le vittime fossero rimaste implicate nel sequestro, forse per supporto logistico, e poi al momento della spartizione del riscatto – inferiore rispetto alle aspettative iniziali – al fine di non dividere il bottino furono eliminati. Il quadro che era emerso deponeva tutto a vantaggio di Beniamino”.