Dopo oltre tre decenni passati dietro le sbarre per un crimine mai commesso, Beniamino Zuncheddu è oggi un uomo libero, ma non risarcito. La giustizia italiana ha riconosciuto ufficialmente la sua innocenza, ma lo Stato che lo ha privato della libertà per 33 lunghissimi anni ancora non ha fatto nulla di concreto per aiutarlo a ricominciare.
“Lo Stato mi ha tolto tutto, ora mi aiuti a ricominciare”, ha dichiarato Zuncheddu. Un appello che oggi trova eco in una petizione popolare lanciata per chiedere che gli venga finalmente garantito il minimo indispensabile per ricostruirsi una vita: un sostegno economico immediato, dignitoso, proporzionato all’ingiustizia subita.
La sua storia, come quella di altri innocenti condannati per errore, è emblematica delle falle ancora aperte nel sistema giudiziario italiano. Se da un lato la revisione del processo ha sancito l’errore, dall’altro la macchina della burocrazia ha congelato ogni risarcimento, lasciando Zuncheddu dipendente dalla solidarietà di parenti e amici. Una situazione che, secondo i promotori della petizione, è “vergognosa e indegna di un Paese civile”.
Il caso ha colpito l’opinione pubblica non solo per la durata dell’ingiustizia, ma anche per il silenzio delle istituzioni. La petizione punta a rompere questo silenzio e a sollecitare un’azione concreta e urgente da parte delle autorità competenti. È un appello alla coscienza collettiva e al senso di responsabilità dello Stato: dopo aver sbagliato, deve almeno riparare.
Il sostegno a Zuncheddu non è solo un gesto di solidarietà, ma un atto necessario per affermare il principio che nessuno, in Italia, può essere dimenticato dopo essere stato ingiustamente condannato. È anche un monito perché errori così gravi non si ripetano più, e perché chi ne è vittima non venga lasciato solo.