Otto ore di domande e risposte serrate del promotore di giustizia aggiunto Alessandro Diddi al cardinale Angelo Becciu, l’imputato di maggior spicco nel processo in Vaticano sugli investimenti della Segreteria di Stato, nato dalla compravendita del palazzo di Sloane Avenue 60, a Londra. È stata questa la quindicesima udienza svoltasi oggi, con la seconda parte dell’interrogatorio al porporato sardo, che continuerà ancora domani. Ma all’inizio Becciu ha voluto chiarire di non aver avuto alcun ruolo nelle dimissioni, il 19 giugno 2017, dell’allora revisore generale dei conti vaticani Libero Milone.
La volta scorsa, sulla questione, Becciu si era avvalso della facoltà di non rispondere, “per salvaguardare il Santo Padre”. “In questi giorni ho chiesto al Papa se potevo parlare liberamente e lui ha detto di sì – ha quindi riferito -. Voglio quindi chiarire sinteticamente quanto a mia conoscenza. Non ho alcuna responsabilità sulle dimissioni del dottor Milone. Diedi solo corso all’ordine del Santo Padre”. “Il Papa mi chiamò – ha proseguito -: ‘eccellenza, le chiederei di chiamare il dottor Milone e dirgli che non gode più della fiducia del Santo Padre e deve rendere le dimissioni’. Chiamai al mattino lo stesso Milone e gli comunicai la decisione del Papa. Le motivazioni erano quelle che poi furono scritte nel comunicato del 24 settembre 2017, dopo dichiarazioni di Milone alla stampa. Insomma, Milone, ‘esulando dalle sue competenze, ha incaricato illegalmente una Società esterna per svolgere attività investigative sulla vita privata di esponenti della Santa Sede’. Ribadisco con forza di non aver avuto alcun ruolo nella decisione del Santo Padre”. Becciu, di cui è stata proiettata in aula parte della conferenza stampa del 25 settembre 2020, all’indomani dell’udienza-shock in cui papa Francesco lo privò della carica in Curia e dei diritti del cardinalato, ha dovuto rispondere al Pg su una serie di documenti agli atti riguardanti la gestione dei fondi, su cui però lui, ammettendo la necessità di un grande sforzo, ha replicato spesso “non ricordo”.
“Era l’Ufficio amministrativo (quello di mons. Alberto Perlasca e Fabrizio Tirabassi) che mi preparava i dossier e io mi limitavo a vistare – ha spiegato l’ex sostituto per gli Affari generali -. L’Ufficio doveva farmi vedere i pro e i contro. Aveva l’obbligo morale di non mettere in difficoltà il superiore. Il compito anche di non far fare brutta figura al superiore. E se mi presentavano una cosa come vantaggiosa io la firmavo. Era loro compito facilitare la decisione del sostituto”. Molto teso il clima in aula, con frequenti battibecchi tra le difese e l’accusa e la necessità da parte del presidente GIuseppe Pignatone di stoppare le polemiche. Oltre che del Palazzo di Londra, Becciu parla dei rapporti con la diocesi di Ozieri, del presunto ‘depistaggio’ che gli viene contestato con la proposta formulata da terzi sull’acquisto del Palazzo di Londra (“ne parlai col prof. Gian Piero Milano, gli dissi c’è questa offerta, un fondo che vuole proporsi per questo palazzo. Lui disse: ‘Magari! Andate avanti’.
Se io avessi avuto dei fini diversi ne avrei parlato col promotore di giustizia?”), affronta ancora la questione Cecilia Marogna e nega di aver mai parlato di “riscatto” per la suora colombiana rapita in Mali. Ma sulla ex manager sarda, in particolare sul pernottamento di lei a casa sua di cui si parla nel fascicolo d’accusa dà la sua versione: “Sono un fedele lettore del Manzoni. Ricordate Fra Cristoforo che accoglie Lucia al Monastero e alle contestazioni risponde ‘Omnia munda mundis’? Lei alla sera venne da me, dovevamo parlare. Si fece tardi. Quando stava uscendo le suore che mi assistono in casa mi dissero: ‘la signora ha paura di andare in albergo perché c’è il Covid. Possiamo alloggiarla noi?’ Io dissi di sì. L’ho ritrovata la mattina dopo a colazione e poi è andata via. La cosa è andata così”. All’inizio dell’udienza, il presidente Pignatone ha dato lettura dell’ordinanza con cui ha in parte respinto e in parte accolto le eccezioni delle difese sulla costituzione parte civile del testimone-chiave Alberto Perlasca, ammessa solo contro il card. Becciu per il reato di “subornazione di testimone” e respinta invece contro gli altri imputati Tirabassi, Torzi, Crasso e Squillace per il reato di truffa per essere stato – a suo dire – “indotto in errore” nella firma del provvedimento che lasciava a Torzi le mille azioni con diritto di voto e quindi il controllo del Palazzo di Sloane Avenue. (Ansa)