La musica può metterci in contatto con lo stato di incoscienza profonda in cui vivono i pazienti in coma? In Italia non esistono ancora studi scientifici pubblicati ma l’esperienza di una ricercatrice cagliaritana apre nuovi scenari sulla musicoterapia applicata ai pazienti che hanno subito traumi gravi al cervello.
Francesca Romana Motzo, 40 anni, dopo il diploma di Conservatorio conseguito a Parigi ha iniziato a studiare Musicoterapia nella prima scuola privata triennale aperta a Cagliari. Tra il 2004 e il 2006 ha poi portato avanti un tirocinio accanto alla studiosa Rita Meschini nel Centro Ospedaliero ed extra Ospedaliero S.Stefano di Porto Potenza Piceno, nelle Marche, dove si sperimenta la musicoterapia applicata al coma allo stato vegetativo e a pazienti con minima responsività.
Dopo gli studi è arrivato il dubbio: e se le tecniche musicoterapiche finora riservate ai pazienti in coma vegetativo venissero anticipate addirittura nella fase di coma acuto, non appena in pazienti arrivano in ospedale? Un’idea che si è trasformata in pratica quando ha iniziato una collaborazione non retribuita nel reparto di Rianimazione dell’ospedale “Brotzu” di Cagliari. Per tre anni, dal 2007 al 2010, è stata accanto a trenta pazienti in coma acuto: “Ho lavorato con persone che avevano subito un trauma cranico, un’ipossia cerebrale o un ictus cerebrale grave , che non erano ovviamente in grado di comunicare secondo i tradizionali canali verbali e immerse in uno stato di profonda incoscienza – ci racconta la Motzo – e per le quali era indispensabile cercare un altro modo di entrare in contatto. Il suono e la melodia mi hanno aiutato a costruire un ponte per raggiungerli e farli uscire dall’isolamento”.
Uno studio inglese pubblicato nel 2013 ha già dimostrato gli effetti positivi degli stimoli sonoro-musicali nel coma vegetativo e negli stati di incoscienza monitorando le risposte su elettroencefalogramma, respirazione e battito cardiaco; l’esperienza cagliaritana è però unica in quanto applicata ai pazienti ricoverati in coma acuto, e dunque in condizioni instabili e profondamente critiche. Il primo ostacolo da combattere sono stati gli stereotipi: “In queste condizioni qualsiasi stimolo se non controllato e dedicato può essere una sollecitazione troppo invasiva per un cervello estremamente debole e sensibile, per questo bisogna sgomberare il campo dai luoghi comuni: niente musica registrata e fatta ascoltare nelle cuffie, non bisogna pretendere risposte immediate da persone in uno stato di così grave difficoltà, meglio lavorare su stimoli lenti ma quotidiani per stabilire un nuovo linguaggio con il paziente”.
La seduta di musicoterapia dura circa 20, 25 minuti con cadenza quotidiana, c’è un primo momento verbale di ‘saluto’ a cui segue una serie di proposte sonoro-musicali alternate a momenti di silenzio, il tutto in stretta connessione con i parametri vitali costantemente monitorati. Niente strumenti o musica registrata, la terapista comunica solo modulando la propria voce. Un momento delicatissimo che risponde a tempi e consuetudini ben lontani da quelli a cui siamo abituati, dove ogni più piccolo segnale può avere un grande significato: “Il silenzio è molto importante: la persona riceve e registra gli stimoli vocali, anche se non possiamo sapere in che modo li accolga o li elabori , ma ogni cambiamento sul respiro o sul battito del cuore può farci capire che si è creato un contatto comunicativo”. Un contatto è infatti l’obiettivo principale della terapia basata sui suoni: se i farmaci e le cure mediche mirano a cambiare, stabilizzare e migliorare lo stato di salute del paziente, la musica serve per entrare in comunicazione e cercare una risposta da chi in quel momento non può parlarci.
In Italia la sperimentazione di musicoterapia all’ospedale cagliaritano è per ora un caso isolato ma presto potrebbe non essere l’unico: “In questo momento sto cercando una struttura ospedaliera che possa accogliere un servizio attivo di musicoterapia applicata al coma tramite un nuovo progetto di ricerca: sono convinta che grazie a questa disciplina si possano realizzare nuovi percorsi riabilitativi armonici, dove le persone malate non vivano passivamente il loro stato di isolamento. Nella guarigione è importante coinvolgere non solo l’aspetto organico e dunque tangibile del paziente, ma tutte le risorse del paziente, anche quelle che appartengono alla sfera incosciente e al suo mondo degli affetti e delle emozioni”.
Francesca Mulas