Adesso zia Grazia, 76 anni, è tornata nella sua casa di Orgosolo. Sette anni dall’arresto avvenuto il 19 aprile del 2006 dopo che fu condannata definitivamente dalla Cassazione per essere stata la carceriera di Silvia Melis. All’epoca Grazia Marine aveva quasi settant’anni e le sue condizioni di salute erano già precarie. Ma a nulla valsero l’appello delle figlie, la lettera al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, l’interessamento della commissione Diritti civili del Consiglio regionale e le interrogazioni in Parlamento che descrivevano una donna anziana e malata, che già allora si trovava in condizioni non compatibili con la detenzione.
Sono passati sette anni. Scanditi da accertamenti medici che – nonostante il diabete, il cuore sofferente e una grave atrofia renale – confermavano il carcere. Fino a venerdì quando il giudice di sorveglianza del tribunale di Nuoro ha accertato che le condizioni di salute dell’anziana reclusa erano veramente gravi e le ha consentito di tornare a casa.
Ora è malata ma serena zia Gra’, come venne chiamata dopo la deposizione di Silvia Melis. L’ex sequestrata, interrogata durante il processo, raccontò di aver sentito spesso, durante la sua prigionia nell’appartamento nuorese di via Trento, chiamare quel nome quando qualcuno entrava nell’abitazione.
E’ stato uno degli elementi che hanno determinato la condanna, oltre a quella del figlio primogenito di zia Gra’, Antonio Maria Marine (a trent’anni di carcere) e di Pasqualino Rubanu (a ventisei anni). Grazia Marine ne ha avuti venticinque e mezzo. Considerando l’età e il ruolo, una pena particolarmente dura. Per un reato odioso, che non prevede sconti per chi se n’è reso responsabile.
Adesso zia Gra’, che fa fatica a reggersi in piedi, ha ritrovato il calore della famiglia nella sua grande casa alla periferia di Orgosolo. Un casa cresciuta pezzo dopo pezzo, così come cresceva la famiglia: dieci figli dal primo marito e poi altri due matrimoni. Tre volte sposata e tre volte vedova. L’ultimo marito “ziu Tuseddu” è morto nella sua casa di Nuoro, la stessa in cui secondo i giudici era prigioniera Silvia Melis, poco dopo che l’ostaggio era stato trasferito altrove.
Una vita di combattimento quella di zia Gra’ che si alzava tutte le mattine all’alba per fare il pane, ma poi lavorava come contadina o come imbianchina se capitava ‘occasione. Dieci bocche da sfamare sono tante e i soldi non bastavano mai. Quando morì il primo marito, i figli erano piccoli, e lei si buttò ancora più a capofitto nel lavoro, per riuscire a sbarcare il lunario. Contemporaneamente costruiva la sua casa, dove forse immaginava di ricavare qualche appartamento per suoi figli.
Questa è stata la vita di Grazia Marine. E in questa esistenza complicata c’è stata persino la partecipazione a un sequestro di persona. Avrebbe preso in custodia Silvia Melis tenendola per tre mesi nella sua abitazione. Una “matriarca dalla insidiosa mentalità criminale”, secondo l’accusa. Definizione che l’avvocato Pasquale Ramazzotti (suo difensore con Mario Lai), tentò di smontare in aula: altro che matriarca, Grazia Marine è una “vinta”: una persona che dalla vita “ha avuto sempre e solo le briciole” e che, adesso, “rischia di pagare per colpe che non ha commesso”.
“Zia Tuseddu”, il terzo e ultimo dei suoi mariti, sottolineò il legale, la considerava poco meno di una badante. E quella di zia Gra’ era stata, rispetto all’organizzazione del sequestro, una presenza irrilevante. La presenza di una donna che cerca solo la sicurezza economica per i suoi figli e “non entra nel mondo delle decisioni e che non sale fino alla stanza dei bottoni, ma resta relegata nello scantinato delle faccende domestiche”. “Come poteva – domandò ai giudici d’appello l’avvocato Ramazzotti – una donna così succube di un uomo che l’aveva imbrogliata promettendole in eredità un terreno che aveva già destinato ai suoi nipoti, possedere la personalità criminale autonoma che gli inquirenti e la sentenza di primo grado le attribuiscono?”
Tesi in parte accolta dai giudici dell’appello che, in un passaggio delle motivazioni, hanno scritto: “Fu Grazia Marine ad aprire la casa del sequestro, lo fece per amore filiale”. Amore verso quel figlio condannato per lo stesso reato. Un amore, che, però, non era una giustificazione sufficiente per escludere la sua responsabilità di concorrente in un sequestro, quello di Silvia Melis, che è stato anche uno dei più complessi e misteriosi della lunga storia della criminalità sarda.
Perché non c’è stato solo il procedimento contro zia Gra’. Ce n’è stato anche un secondo (condotto dai magistrati del pool di Palermo Antonio Ingroia, Giovanni Di Leo e Lia Sava) che ha visto imputati l’editore Nicola Grauso, il giornalista Antonangelo Liori, l’avvocato Luigi Garau, tutti accusati di estorsione ai danni dell’ingegner Tito Melis, padre dell’ostaggio, e di calunnia nei confronti dei magistrati Carlo Piana e Mauro Mura, della procura distrettuale di Cagliari. Secondo l’ipotesi dell’accusa, i tre, insieme con l’avvocato Antonio Piras e il giudice Luigi Lombardini (suicidatosi dopo un interrogatorio l’11 agosto del 1998) avrebbero organizzato un vero e proprio piano criminale con tre obiettivi: impadronirsi di un miliardo di lire versato dall’ingegner Melis all’avvocato Piras che avrebbe dovuto farlo arrivare ai banditi che tenevano Silvia in ostaggio, farsi consegnare un’ulteriore somma di pari importo e mettere alla berlina la procura distrettuale antimafia che dirigeva le indagini sul rapimento. Quest’ultima operazione – che sarebbe stata organizzata dal giudice Luigi Lombardini, ‘nemico storico’ dei magistrati della procura di Cagliari – prevedeva la stesura di una lettera (ordinata dal magistrato all’ingegner Melis, e da quest’ultimo consegnata all’avvocato Piras) nella quale falsamente si attestava che i pubblici ministeri avevano dato l’autorizzazione al pagamento del riscatto.
Gli imputati in questo processo alla fine sono stati tutti assolti. Non zia Gra’ che adesso, dopo sette anni, è tornata nella sua casa di Orgosolo per trascorrere gli ultimi anni della sua vita in trincea.
Maria Giovanna Fossati