Le vibrazioni sottili di Rosanna Rossi: un alfabeto di spazi, colori e superfici

Ha inaugurato il 25 settembre, alla Prometeogallery di Ida Pisani, la prima mostra personale di Rosanna Rossi (1937, Cagliari). Obiettivo della galleria milanese quello di contribuire al processo di riscoperta dell’artista sarda e della sua opera che, prodotta nel corso di una carriera creativa di oltre sessant’anni, è improntata alla sperimentazione continua. ‘Vibrazioni sottili’ è il titolo suggerito da Alfredo Cramerotti, curatore del testo critico della mostra, il quale propone una lettura ispirata all’idea di ritmo che, nell’arte come nel quotidiano, è scandito da un necessario contrappunto tra il rigore delle strutture e il flusso della vita.

Rosanna Rossi ha esordito con una figurazione di ascendenza espressionista, nella cui aspra deformazione si ritrovano alcune delle memorie che l’hanno segnata profondamente: il periodo della guerra e la docenza nell’ospedale psichiatrico di Cagliari, dove ha insegnato pittura ai ricoverati. Quando, dal punto di vista artistico, il rapporto con lo spazio ha iniziato a farsi sempre più urgente, è approdata ad una personale forma espressiva, ricca di una simbologia creata ad hoc, che le ha permesso di trasformare la dimensione biografica in riflessione universale.

Questa svolta artistica si è concretizzata, a partire dagli anni Settanta, con le serie di tele che nascono dalla sovrapposizione di bande di colore (Bande Colorate) e di linee (Beautiful lines). Connotate da una grande armonia e da un elegante ritmo compositivo, gli elementi si stagliano sulle zone bianche creando una pausa nella melodia cromatica. Queste opere, prive di qualsiasi compiacimento descrittivo, articolano una trama di impatto emotivo, come se ognuna si facesse carico della presenza di chi le osserva.

Parallelamente nasceva in Rosanna Rossi un’altra urgenza che la portò ad utilizzare materiali differenti.
La materia era infatti il mezzo espressivo più idoneo a caratterizzare una ricerca artistica che affonda le radici nella personalità dell’artista stessa. Così, quasi alla fine degli anni Settanta, destinò garze e spaghi ad un uso creativo.
Le garze, con cui fasciò il marito, vennero intrise di colore e poi tirate su una serie di tele con il rigore di un tracciato lineare dalla straordinaria valenza simbolica; gli spaghi segnarono invece linee orizzontali che, ritmate in modo differente, originavano partiture geometriche e musicali al contempo.

Nei decenni successivi la sua pittura si confermò come espressione di luce (Carati), identificando un personale linguaggio pittorico fondato sulla conoscenza, dunque prima intellettuale, poi fisico. Lea Vergine, in un suo scritto, disse della Rossi che “vive in un luogo di esilio e di pienezza e guarda con gli occhi voltati verso il di dentro”.

Ci sono infine gli anni delle opere realizzate con mezzi apparentemente poveri e di scarto, uniti a un raffinato assemblaggio contemporaneo. Sono prevalentemente oggetti d’uso: cocci di bottiglie, spazzole, guanti di gomma, pagliette abrasive (Mezze maniche; Pagliette di ferro). Si tratta di un processo affascinante, un’intrigante metamorfosi delle cose, una virtuosa riconversione dell’usato, che rinasce alchemicamente per mano dell’artista.

Non si è accorta del passare del tempo, ha spiegato l’artista in occasione dell’inaugurazione, “è come se fosse ieri che ho iniziato a lavorare. Non ho una negatività per dire, ‘ah quello l’ho fatto tanti anni fa’, no, questo no. Ogni cosa che ho fatto è presente, non è né futuro né passato, è attuale, è l’attualità”. Un qui e ora che passa i lavori in corso d’opera, produzioni affini a molti dei principali stilemi della pittura contemporanea, ma al tempo stesso in grado di riformulare i linguaggi, attraverso un’interpretazione che è sempre originale e consapevole.

La mostra, che sarà visitabile fino al 5 novembre, rappresenta il compimento di un ciclo di tre anni di lavoro e testimonia la realtà di un’artista che, avendo sempre proceduto in direzione astratta con un forte contenuto intellettuale ed un preciso impegno civile e socio-politico, è più che mai attuale nel dibattito sull’arte e sull’identità femminile.

Lei che “non si assomiglia mai”, che lungo tutto il suo percorso ha attraversato un coerente, e sempre manifesto, divenire processuale, ha saputo trasformare l’opera in un nuovo alfabeto di forme e colori, spazi e superfici. Un insieme che continuamente risveglia la capacità immaginativa, restituendo, puntualmente, una bellezza armonica e mai provocatoria.

Gaia Dallera Ferrario
https://www.instagram.com/gaiafe/

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