La metafora dei fili, intrecci nel tempo. Così Jole Serreli ha conquistato Parigi

Trame sottili, oggetti del passato – e del presente – che acquistano valore simbolico e poetico. Un filo, conduttore di energia, simboleggia la funzione stessa dell’opera d’arte, tessendo un dialogo tra uomo e società. Una costellazione di elementi non convenzionali svelano un’estetica curiosa e seducente in cui lo spettatore è invitato a ripensare il suo rapporto con il mondo circostante. Questo uno scorcio della poetica che l’artista sarda, Maria Jole Serreli, esprime nella propria ricerca: lirica, sottile e privata.

Le sue installazioni artistiche si strutturano intorno ad oggetti del quotidiano il cui spazio, fisico e concettuale, viene ampliato dalle traiettorie di un filo. Ad esso il compito di legare, custodire, trasformare e suggerire, nel proprio rituale passaggio, la presenza di qualcosa di segreto e prezioso, nascosto nella propria trama. 

L’artista nobilita, nel linguaggio della scultura contemporanea, tecniche, come quella del filato, tradizionalmente considerate artigianali. Ne sovverte la destinazione attribuendo, alle procedure e ai materiali, piena dignità artistica.
Il gesto del tessere, in particolare, è un atto da sempre associato alla pazienza della donna, chiusa nello spazio privato della sua casa.

Le opere della Serreli intrattengono un dialogo serrato, scandito dalla presenza di diverse temporalità: quella obbiettiva del presente e quella affettiva del ricordo volontario (evocato dall’inclusione di oggetti della vita privata dell’artista) e inconscio (legato agli archetipi del mondo femminile). La sua ricerca si fa inoltre tramite di un’apertura: gli oggetti, le emozioni, la familiarità della sua abitazione confluiscono nelle sue opere, divenendo patrimonio collettivo. Un’arte delle piccole cose che tesse una trama tra dimensione privata e pubblica, soggettività e universalità, singolarità e pluralità. Un interrogatorio che si eleva sulle frontiere tra spazio domestico, atelier e luogo d’esposizione. La casa della bisnonna, a Marrubiu (Oristano), è stata infatti trasformata nel suo studio d’arte nonché in uno spazio aperto ad altri artisti.

Dal 20 al 29 settembre prossimi Jole Serreli sarà impegnata in Calabria con l’evento la ‘Residenze sense’, che avrà luogo negli spazi del Mabos (Museo d’arte del Bosco della Sila); poi Parigi, dal 14 al 20 ottobre, per la prima mostra personale programmata nella Galleria Espace Le Marais; dal 23 al 26 ottobre, infine, la tappa nella Galleria Pallas Arts, un invito arrivato dallla Fiera internazionale d’arte contemporanea KatArt, a Doha, nel Qatar. Proprio in previsione di un autunno denso di appuntamenti, abbiamo rivolto alla Serreli qualche domanda.

Nelle sue opere il filo investe il duplice ruolo di trattenere e veicolare. È più suggestionata dal suo scorrere, dalle sue lineari tensioni, o dai nodosi intrecci?

Tutti gli elementi da lei citati sono necessari nel mio lavoro. È come la realizzazione di un luogo sacro, di un luogo di preghiera: per costruire un tempio non è fondamentale solo utilizzare la materia (blocchi di pietra o mattoni), ma anche le persone e le preghiere; così, anche nelle mie opere, sono fondamentali tutte le possibilità dell’utilizzo del filo.

In alcune opere oggetti del passato sembrano ricoprirsi di ragnatele sanguigne. Nel suo immaginario d’artista l’ispirazione nasce pensando alla natura o ad una trama artificiosa, tessuta dall’uomo?

La mia prima ispirazione per il progetto Animas (2016) è nata quando, in visita all’isola di San Pietro, ho visto i pescatori che tessevano le proprie reti da pesca; i fili utilizzati erano soprattutto rossi. E ne sono rimasta affascinata. Non ho preso ispirazione dalla donna tessitrice ma dal pescatore che tesse le proprie reti. Il progetto Animas si è sviluppato in quanto produzioni diverse, conclusesi nel 2018, dove è fondamentale la trama artificiosa, tessuta dall’uomo. Nella mia ultima produzione igikai, invece, l’elemento centrale di ispirazione è la natura.

Nel processo di tessitura degli oggetti sente di appropriarsene o di portare a compimento un processo che le permette di consegnarli allo spazio dell’opera?

Assolutamente non me ne approprio, cerco di umanizzarli per permettere loro di raccontare le storie delle persone che li hanno posseduti, in modo tale che quei vissuti diventino memoria collettiva. Io mi sento solo una cantastorie. Il mio obbiettivo è quello di preservare la memoria e tramandarla attraverso le mie opere.

Che rapporto ha con il cucito, tradizionalmente inteso?

La mia infanzia è fatta di cucito, vengo da una famiglia di ricamatrici (chi per passione, chi per mestiere), perché mia nonna, le mie prozie e mia mamma ricamavano. Io non ho mai ricamato, ho assorbito la tradizione della mia famiglia trasformandola poi in una forma di espressione artistica concettuale che ho fatto mia tramite la fiber art, in cui non utilizzo il filo per cucire o ricamare, ma il filo è la materia fondamentale per fissare il pathos che voglio trasmettere.

Ha mai pensato di sviluppare qualche prodotto per la moda?

Non ho sviluppato prodotti per la moda, ma da due anni collaboro con la stilista cinese HuiI Zhou Zhao, a Shenzhen (Cina), presso il museo d’arte contemporanea ‘Each way art and fashion museum”, dove il mio lavoro è utilizzato per valorizzare alcune sue realizzazioni di moda, a cura di Barbara Santoni. In ogni modo, sviluppare una mia linea di accessori per la moda è un settore che mi interessa e non escludo di farlo in futuro.

Nell’ambito della fiber art spesso si parla di nobilitazione dell’artigianato. Qual è, secondo lei, il confine tra arte e artigianato?

Per me, l’una non esclude l’altro, poiché io stessa utilizzo antichi pizzi e merletti e tessuti e oggetti di artigianato d’epoca nella realizzazione delle mie produzioni di fiber art. Io penso che alcune realizzazioni artigianali possano diventare opere d’arte non nell’immediato ma col passare del tempo. Chi fa fiber art non realizza opere in serie ma pezzi unici che diventano preziosi nell’immediato. L’artigiano ha un ruolo importante nella società perché preserva e tramanda tradizioni manuali che sono patrimonio culturale del territorio in cui risiede. Il fare dell’artista invece, non è questo, l’artista può prendere ispirazione dall’artigianato, ma spesso e volentieri stravolge la tradizione per realizzare un concetto personalissimo.

Trova radici del suo percorso attuale nella sua infanzia?

Si, soprattutto nella prima parte della mia produzione Animas, del 2016, ci sono riferimenti importanti alla mia infanzia. Per alcuni è fondamentale scrivere per raccontare, io ho legato oggetti della mia infanzia per ricordare e non dimenticare.

Gaia Dallera Ferrario
https://www.instagram.com/gaiafe/

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Biografia essenziale dell’artista

Maria Jole Serreli (Roma, 1975), una qualifica di ceramista a Oristano, al Centro regionale di formazione professionale, vive e lavora a Terralba. Inizia l’attività espositiva nel 1999 ad Arborea, a cui seguono numerose altre personali e collettive, in Italia e all’estero, come Londra, a partire dal 2010, e Amburgo nel 2011. Nel 2012 è all’Affordable art fair di Milano con l’opera vincitrice di un concorso per la valorizzazione del rapporto tra impresa e arte contemporanea. Nel 2014, al Macro Testaccio di Roma, è finalista al Premio Adrenalina e vincitrice del III Premio, ex-aequo. Nel 2016 è finalista al ‘Premio internazionale Lìmen Arte 2015’ e vince il II Premio, ex-aequo. Le sue opere sono presenti al Museo del Minatore di Buggerru (Sud Sardegna) e in quello Dinamico della seta a Mendicino (Cosenza). È ideatrice del progetto artistico a sostegno di Emergency, ‘In your shoes’, presentato a Londra nel 2013. Ha partecipato a simposi e residenze artistiche tra cui ‘Cosenza 2015’, a cura di Alberto Dambruoso. Nella sua vasta produzione artistica unisce i lavori installativi ad atti performativi.

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