Un successo di critica e pubblico straordinari per “La Merda”, dissacrante monologo di Cristian Ceresoli e la sua strepitosa protagonista, Silvia Gallerano, vincitori nel 2012 del blasonato Fringe Festival di Edimburgo e di una girandola di altri Premi in tutta Europa. Un sold out che si è confermato anche sabato sera, a Cagliari, con la platea del Minimax del teatro Massimo colma all’inverosimile e numerosi spettatori alla ricerca di un biglietto o costretti in piedi. Un passaparola creato ad hoc da quelli della Compagnia B, ideatori e organizzatori dell’originale festival cagliaritano “Palco Palcoscenico”, attivo già da qualche anno in città, e capace di intercettare le novità, i gusti e i nuovi linguaggi della drammaturgia internazionale. Ieri sera, l’impatto è stato immediato, sin dalle prima battute, quando a luci ancora accese, di schiena e completamente nuda, l’attrice si dibatteva come un animale muto, davanti al pubblico in attesa.
Poi, allo spegnersi delle luci, la furia. Nuda e bianca come una tigre albina su uno sgabello circense, il corpo fasciato da un faro di luce impietoso, Gallerano ha iniziato a vomitare una storia dolorosa, un salmo incessante che ricordava il refrain di una bambola rotta, le cosce, grasse, grosse, bianche, che si muovono sincopate a scoprirne il sesso senza indugi. Una voce inattesa, infantile, capace di bassi e acuti violenti, che si trasforma, che incarna altri mondi, altri corpi, altre vite: a volte è il padre “squallida stirpe oscurantista che rese rachitica e strisciante la nostra razza”, poi è la madre “Hai mangiato, almeno hai mangiato???” poi è il bambino malato “Succhiami il cazzo, succhiami il cazzo” e l’urlo che si fa ruggine e miseria. “Questa cosa delle cosce” ruggisce Ceresoli “Avere queste cosce qui, è un impedimento a mille autografi e agli applausi che mi toccano il sedere”.
E’ una potenza di fuoco e di parole alle quali non ci si abitua, la sofferenza di una giovane donna schiava della bellezza, l’autofagia che passa dal gesto infantile di ciuccarsi i polpastrelli fino alla soluzione finale del “vorrei mangiarmele tutte queste mie cosce”. Un monologo che scorre come una partita doppia tra avere ed essere, dove le insicurezze non sono solo quelle delle bambola in scena, ma appartengono a un paese intero, un paese dove ci vuole davvero “tanto coraggio e anche un po’ misericordia” per sopportare e resistere a tutto quello che accade. La pubblicità, il sesso, la malattia, ma anche i soldi, la solitudine, la morte, c’è tutto, forse anche troppo in questo monologo che ricorda le pagine più dure e aspre di Pasolini. Tre atti che si consumano in un’ora, senza soluzione di continuità, con una nudità che oramai non fa più effetto, perché travestita, coperta di sussulti, singulti, violenza. Una tragedia che ha il suo epilogo sarcastico nell’ottenimento di un modello in controtendenza, quello di una bambola piccola e grassa che ingurgita tutti i suoi escrementi, come nel mito dell’Uroboro, il serpente che si mangia la coda e chiude il cerchio dell’eterno ritorno. Alla fine, davanti a quel corpo muto, non resta che lo strazio stonato dell’inno di Mameli. (don. perc.)