Open, successo senza rischio. Mentre in Sardegna lo spettacolo chiude

Prendiamo Open, di scena nei giorni scorsi in numerosi palcoscenici della Sardegna. Uno spettacolo riuscito. Riempie i teatri. Il pubblico a tratti si sorprende, sorride e infine applaude con calore. Un successo ideato e costruito per essere tale da un maestro della comunicazione visiva. Vi si snocciolano brevi ed intense scene ad effetto, una sequela di spot giocati su abilità fisiche non comuni, precisione nei tempi e nei modi, uno studio dello spazio, dell’immagine e del movimento impeccabile. Otto ballerini sulla scena (la DEConstructions Dance Company) diretti da un virtuoso della coreografia e della scena, quel Daniel Ezralow già fondatore dei MOMIX e ISO (I’m so Optimistic). Uno che sa bene cosa vuole il pubblico ed è abbastanza scaltro e rodato per offrirglielo sempre, assieme a quel mix di invenzione, umorismo e sorpresa che strappa il sorriso e l’applauso.

Open è un perfetto spettacolo di intrattenimento, corrisponde al desiderio di fruizione immediata, condensata e priva di angoscia di un grande pubblico. Che va a teatro come a prendersi una pizza per distrarsi, rilassarsi, godersi un buon momento a risarcimento degli sforzi quotidiani. Sulla scena una troupe di bravi danzatori acrobatici e palestrati, con direzione, tecnici e tecnologia tali da poter piacere anche all’attuale giunta regionale, notoriamente avvezza solo ai teatrini della politica.

Open sembra infatti l’incarnazione del prodotto tipo di quella industria dello spettacolo “dal vivo” descritta e premiata dalla delibera regionale dello scorso gennaio, che metterà alla gogna decine di artisti ed associazioni sarde in nome della professionalità. Dopo aver costretto gli artisti a farsi burocrati per accedere ai fondi regionali, a cercare doppi e tripli lavori per poter pagare commercialisti e fideiussioni, la testa della grande mucca regionale, di cui nessuno può fare a meno ma ormai magra come una vacca indiana, si inventa la sconcezza di un ribaltamento delle regole in piena corsa (peraltro in assenza di bilancio) che andrebbe a premiare la creazione di lavoro stabile e l’esistenza di strutture consolidate, confondendo il fare artistico con una qualsiasi impresa commerciale.

Sia chiaro, quando si parla di intrattenimento si parla di una industria enorme, dai numeri fortissimi. Sia in tv che sul palcoscenico. Ma dev’essere altrettanto chiaro che la sperimentazione artistica, la creazione che nasce dal dubbio e dalla ricerca della verità, non è e può essere trattata al pari dell’intrattenimento, e dunque trascinata nelle logiche del mercato. Altrimenti finirebbe per inseguire il gusto del pubblico, cercare i numeri e tradire, in sostanza, lo spirito dell’arte. I politici sanno, o dovrebbero sapere, cosa significa ricercare il consenso. È proprio quello che l’arte non deve fare, per essere tale. Ma in Regione ancora una volta non si distingue, si pretende che gli artisti si adeguino alla trovata dell’assessore di turno (o delle sue muse ispiratrici) al di fuori di qualsiasi programmazione, malgrado una legge che ne imporrebbe una triennale, facendo ricorso a un vecchissimo articolo scritto nelle more di una disciplina organica del settore di cui nessuno vuole assumersi la responsabilità.

È vero, i margini possono essere labili. Però tenere a mente la distinzione tra intrattenimento e ricerca artistica aiuterebbe a ripensare anche il ruolo e la funzione dell’azione pubblica, che dovrebbe soprattutto sforzarsi di tenere al centro delle sue considerazioni la crescita culturale ed intellettuale dei cittadini, oltre che coccolarli e rassicurarli, fornendo buono e sano divertimento.

Giulia Clarkson

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