Gavoi applaude Lahiri: “La lingua italiana, la cura di cui avevo bisogno”

Peccato per quel sorriso che stenta ad illuminarla. Perché l’anglo indiana Jhumpa Lahiri è di una bellezza commovente, una madonna scura, con uno sguardo profondo, come macchia di petrolio. Premio Pulitzer nel 2000 per L’interprete dei Malanni, Jhumpa è la protagonista dell’incontro serale nella piazza colorata di Sant’Antiocru: ad accoglierla, con attenzione e religioso silenzio, una marea di volti e di applausi. Lei, però, lo sguardo severo, parla piano, quasi sottovoce, e ogni parola scandita è una ferita che si apre.

“Volevo andare oltre il confine di un’identità precisa, e ho scelto di scrivere in italiano, per me un abisso spaventoso, che accetto. Ogni mattino acquisto nuove parole, è come andare al supermercato e fare la spesa: apro il giornale e capisco che questa lingua non riuscirò mai a controllarla. Le parole vengono, spariscono, oscillano. E’ come un giardinaggio continuo, fiori che crescono e poi appassiscono: in fondo è la metafora della mia vita. Un processo liberatorio, che alla fine mi regala anche un profondo senso di libertà. Oggi l’origine della mia scrittura non mi interessa più. Non ho patria, non ho cultura, non provengo da un luogo preciso. Mi sento sola, profondamente sola, in compagnia di parole calde e confortanti”.

Dunque è vero: occorre allontarsi per percepire l’appartenza, bisogna diventare stranieri per riconoscere da cosa si contina a fuggire. Jhumpa l’ha fatto sparigliando le carte e scegliendo di imparare e scrivere in italiano. “Per me è una lingua madre, fonte di riflessione e di affetto. Quasi una cura di cui avevo bisogno. Mi sono resa conto di essere in fuga dopo aver messo piede in questo paese; mi son chiesta mille volte da cosa stavo scappando: l’inglese rappresenta un passato doloroso, il bengalese quasi non lo riconosco, vivo un senso continuo di imperfezione, e il risultato oggi è che mi sento ancora più imperfetta”.

Abbassa gli occhi e cita Botero: “L’artista deve subire un senso di angoscia permanente. Mi sforzo di ignorare critiche e commenti, ma è dura. Poi penso a Matisse che ha lasciato il pennello per le forbici e scopro di essere in buona compagnia”.

Donatella Percivale

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