RACCONTO DI NATALE. I droni mandroni e la guerra

Questa storia di parole comincia un paio d’anni fa, non ricordo esattamente quando, né sono in grado di ricostruirlo con precisione perché l’unico ricordo certo è che era in atto qualche guerra in qualche parte del mondo. E questo non individua un momento preciso perché qualche guerra è sempre in atto. Fatto sta che si parlava con Chicco Gallus, che è uno straordinario giocoliere di parole in versi, della nuova “parola bellica” che sempre più spesso compariva nelle cronache: DRONE. Quell’associazione arrivò in pochi istanti: inevitabile, necessaria, come l’hurrà dopo l’hip hip.

Chi ama le scemenze – nel senso più alto del termine – sa che c’è un momento in cui capisci che stanno per arrivare, annunciate da un venticello che ti fa il solletico ai lati degli occhi, obbligandoti ad aggrottarli. Così ci accadde quel giorno quando Chicco ed io, assieme, vedemmo l’implacabile e invisibile DRONE dell’aviazione americana che, in volo sulla Sardegna, forse ispirato dalla meraviglia di quei graniti sul mare, si fece uomo, MAN, e questo nuovo essere discese dal cielo, s’adagiò sulla terra, e giacque, immobile, esausto, incapace di qualunque movimento, sordo ai richiami della folla incuriosita che gli si era radunata attorno e lo chiamava a gran voce – “MAN-DRONE! MAN-DRONE!” senza riuscire a scuoterlo dal suo torpore. Anzi, siccome era una tecnologia perfetta, in grado di comprendere tutte le lingue del mondo, avvertiva quell’incitamento ad alzarsi come un invito a stare immobile, se no che razza di mandrone sarebbe stato?

Le scemenze – ma chiamatele come volete – sono come i semi volatili del dente di leone: ti si posano sui capelli e sui vestiti in modo così lieve che non te ne accorgi. Non sai che ci sono, ma sono lì. E ti si ripresentano quando meno te l’aspetti. Così qualche giorno fa, i commensali di un pranzo pre-natalizio conversavano amabilmente del più o del meno e dunque, come sempre accade, di qualche guerra, perché qualche guerra di cui parlare c’è sempre, quando qualcuno pronunciò quella parola – DRONE – e tanto bastò perché qualcun altro riproponesse la rima e droni e mandroni tornassero a incontrarsi. In Sardegna, evidentemente, è il loro destino. Lo condividono con tante altre scemenze incomprensibili altrove, come l’accusa di cannibalismo a chi, dopo aver ordinato il cappuccino, manifesta l’intenzione di “mangiare una polacca” o quel pregiudizio di antipatia, alterigia ed arroganza nei confronti del commissario europeo Barroso.

Sarebbe finita là, perché appunto le scemenze vanno e vengono come i soffioni del tarassaco, se qualcun altro ancora non si fosse chiesto ad alta voce quale sia la reale etimologia di mandrone.

Ad avere a portata di mano un vocabolario sardo da consultare subito – cosa che invece ho fatto appena tornato a casa dopo quel pranzo – la tavolata avrebbe avuto di che sbizzarrirsi in ipotesi attorno alla possibile evoluzione, con spostamento di significato, di “su mandrioni”, che è una grande “mandra”, il luogo dove si raduna il bestiame per la notte, cioè un posto dove le bestie dormono, non fanno nient’altro che star ferme a poltrire, e in definitiva sono mandrone nel mandrione che, chissà, nel tempo si è così immandronito da perdere una “i” e diventare il sinonimo dell’accidioso fannullone nuragico.

Ma ecco il colpo di scena. Tra i commensali c’è un glottologo, un appassionato di parole oltre che di scemenze. Che propone di spostare la prospettiva della ricerca etimologica ragionando sul mandrone a partire dal man-drone, cioè non dal sardo, ma dall’inglese. E di considerare che “drone” in inglese non è solo un oggetto volante comandato a distanza ma è anche, e prima ancora, il fuco. Sì, il maschio dell’ape. Che, come tutti sanno, non è famoso in zoologia per le sue capacità lavorative: feconda l’ape regina e poi, in tutti i sensi, ha finito. Tanto che gli americani, quando devono indicare un tipo che proprio non ha voglia di fare niente, lo chiamano “uomo-fuco” o “fuco-uomo”: “drone man”, o “man drone

Capito? In America si dice “Man drone” proprio per dire mandrone! Ma come è stato possibile? Forse una incredibile coincidenza ha portato due popoli separati da migliaia di chilometri e dall’Oceano ad arrivare, attraverso percorsi diversissime (i sardi partendo dal luogo dove dormono le bestie, gli americani dall’apicoltura) alla stessa parola per definire lo stesso oggetto, anzi lo stesso soggetto, il man drone – mandrone? Pare di no. Il nostro “mandrione” non ha subito mutamenti o spostamenti di significato. E’ rimasto là, con tutte le sue bestie dentro. E’ stato il “man drone” ad attraversare l’Oceano. E ad arrivare da noi, proprio come molti anni dopo avrebbero fatto i droni.

Accadde probabilmente a metà degli anni Quaranta del secolo passato. Viene da pensare d’estate. Un giorno molto caldo d’estate. Sul molo di qualche porto, all’ombra d’una grande nave carica di aiuti alimentari attorno alla quale erano affaccendati decine di uomini che andavano e venivano portando sulle spalle delle enormi scatole cariche di ogni ben di dio sotto l’occhio vigile di un ufficiale dell’esercito statunitense. Tra quegli uomini di fatica ce n’era uno che, in tutta evidenza, faceva del suo meglio per non faticare. Lo faceva in modo ostentato, spudorato. Tanto che quell’ufficiale americano, esasperato, si dimenticò di essere in Sardegna e lo richiamò all’ordine, come se fosse uno dei suoi sottoposti, nella sua lingua madre: “Man drone! You are a man drone. Fuck you, man drone. Run!”

Per un istante il lavoro si fermò. Tutti avvertirono il venticello magico che accompagna la nascita delle scemenze come la nascita delle parole. Il primo “man drone” sardo abbassò gli occhi, consapevole di aver compiuto il primo passo per entrare nel linguaggio e nel vocabolario. Ma, molto probabilmente, ignaro del suo destino maledetto: essere nato alla fine di una guerra ed essere condannato a essere evocato in tutte le guerre future.

Nicolò Businco

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