La Sardegna rompa col “fronte dipendentista” dei favori e delle clientele

Pubblichiamo questa amara riflessione di Paolo Fadda, economista, saggista, già dirigente del Banco di Sardegna, nella speranza che sia di stimolo per una discussione pubblica attorno a questi temi cruciali per il futuro dell’Isola.

È difficile comprendere, dagli atti politici compiuti in questi ultimi tempi, verso quale tipo di sviluppo si voglia indirizzare la Sardegna. Troppe indicazioni portano a credere che non ci sia un’idea chiara di come liberare l’Isola da quella deriva dipendentista che è la diretta conseguenza della debolezza e dell’insufficienza del suo apparato produttivo. S’avvertono, purtroppo, dei segnali contraddittori da parte della politica, che rendono ancor più oscura la direzione prescelta perché si possa invertire la marcia  innestatasi in questi ultimi decenni. Per quel che è dato da vedere, sembra mancare proprio alla politica (qui intesa nel senso più lato possibile) l’attenzione dovuta ai problemi dell’economia, che sono poi il banco d’azione indispensabile per poter offrire risposte adeguate alle domande – di lavoro e di reddito – che provengono dalla nostra gente.

Per certi aspetti si potrebbe dire che anche la politica (quella cioè che dovrebbe guidare verso lo sviluppo) sia divenuta appunto dipendentista, tirata per la giacchetta da questa o quella consorteria, da questo o quell’interesse corporativo o localistico. Smarrita così ogni capacità d’autonomia, a questa politica non è rimasto altro campo se non quello di andare a raccattare voti e consensi attraverso la distribuzione di piccoli favori. Si può ben capire come questa sia una constatazione assai sconfortante, che ci penalizza per via di una guida politica del tutto inadatta, indirizzata in prevalenza verso interventi di tipo erogatorio ed assistenziale, a mettere in campo decisioni ed interventi utili per avviare una fase virtuosa di sviluppo socio-economico generale e diffuso.

C’è dunque da interrogarsi sul perché la politica sarda abbia perduto ogni capacità nell’analizzare e nell’interpretare i grandi mutamenti avvenuti nell’economia regionale in quest’ultimo trentennio. Abiurato e condannato il cosiddetto sviluppo industriale “calato dall’alto”, che aveva caratterizzato il trentennio precedente (quello, per intendersi, della legge di Rinascita e della Casmez), non ha saputo mettere insieme un progetto alternativo “dal basso”, che, attraverso un risveglio delle capacità economiche endogene, ne riprendesse gli obiettivi sociali: più lavoro, più reddito, più benessere. Tra l’altro, non sapendo offrire alla società isolana occasioni utili per cogliere nuove opportunità di sviluppo, la si è vista impegnata a distribuire, come aiuti pubblici, dei semplici rimedi antidolorifici ed ansiolitici per le più chiassose e prepotenti fra le congreghe sociali.

Gli esempi più illuminanti di queste incapacità li si ritrovano nella mancanza di idonee politiche impostate a favore dei due più significativi settori produttivi – agricoltura e industria – costretti a vivacchiare in uno sterile e stentato spontaneismo naïf ed in un fragile e penalizzante contesto di microdimensioni.

Nel rilevare queste disfunzioni nell’indirizzare e nel sostenere questi settori interessanti la sfera economica, vi è da tener presente quanto il passato ha insegnato: all’alto tasso di aiuti finanziari è sempre seguito un netto abbassamento della produttività dell’impresa beneficata (appare emblematico il caso dell’agricoltura isolana dove l’evidente caduta della produzione lorda vendibile sia stata accompagnata da una crescita degli aiuti pubblici, giunti fino ad un terzo del valore totale). Non più incentivi ed assistenze, quindi, ma disponibilità di strutture e infrastrutture idonee a “fare impresa”.

Parrebbe quindi necessario ripensare lo sviluppo all’interno di un progetto organico di political economy, che si ponga come obiettivo principale quello di  rivalutare e rigenerare il “capitale sociale” disponibile localmente, attraverso l’individuazione di interventi innovativi indirizzati verso il compito primario di creare, rafforzare ed estendere la valenza autonoma del settore imprenditoriale locale. Si riterrebbe necessario stabilire (o ristabilire) degli utili legami collaborativi fra il mondo delle imprese e quelli che vengono ritenuti, in letteratura e nell’esperienza, gli indispensabili “agenti di sviluppo”: cioè con l’università per la fornitura di conoscenze e con la banca per il sostegno creditizio. Incanalando peraltro il loro appoggio verso dei progetti mirati e ben determinati, non generici. Assicurando peraltro che conoscenze e credito abbiano e mantengano un forte imprinting locale. Si è infatti convinti che la promozione ed il rafforzamento d’una base manifatturiera (nell’agroindustria, nella meccanica come nel settore delle collaborazioni “terziste” con imprese esterne) dovrebbe rappresentare l’obiettivo principale per realizzare ed estendere un sano e virtuoso sviluppo autonomo.

Perché questo possa avvenire, s’avverte la necessità di promuovere un’effettiva svolta culturale che scacci definitivamente quegli alibi di vittimismo e di rivendicazionismo, specie nei confronti dello Stato centrale, che rappresentano una copertura ideologica alle proprie incapacità ed inettitudini. Occorre quindi promuovere un forte rinnovamento culturale nelle dirigenze della nostra politica, e non solo. Occorre infatti che l’intera società civile regionale trasmigri dal fronte dipendentista a quello fortemente autonomista, attuando innanzitutto una decisa mobilitazione d’interessi e di volontà che portino la classe politica sarda a dover assumere un ruolo attivo e trainante per poter riprendere, finalmente, la strada maestra dello sviluppo. Senza deviazioni opportunistiche o scorciatoie clientelari.

Paolo Fadda

 

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