La fuga degli elettori dal Pd al M5s e la domanda che Renzi elude

L’analisi dei flussi elettorali svolta all’indomani del voto per le Politiche dai principali istituti di sondaggi offre molti interessanti spunti di riflessione non solo sulle cause della disfatta del centrosinistra ma anche sugli scenari futuri. Secondo Nando Pagnoncelli, su 100 elettori che nel 2013 votarono per il Partito democratico, domenica scorsa in 20 sono rimasti a casa, in 14 hanno votato per il Movimento 5 stelle, 7 per Liberi e uguali. “Granitico”, invece, l’elettorato grillino che, per oltre tre quarti, ha confermato il voto del 2013.

Questi dati dicono che rispetto alle precedenti elezioni Politiche, la base elettorale del Movimento 5 stelle è – come provenienza politica – un po’ più “di sinistra” di quella del 2013. E in parte spiegano l’apertura di Luigi Di Maio al Partito democratico e l’interesse di una parte del Pd a questa apertura, peraltro immediatamente bocciata da Matteo Renzi nel discorso in cui ha annunciato le sue “semi-dimissioni” da segretario.

Di certo Movimento 5 stelle è stato ritenuto una valida alternativa da una parte considerevole dell’elettorato del centrosinistra. Fino al punto che in diversi collegi uninominali dove la contesa per la vittoria era tra un candidato grillino e un candidato del centrodestra, una parte degli elettori del centrosinistra ha spostato il suo voto verso il candidato 5 stelle, considerandolo evidentemente più vicino (o meno lontano). Una forma di “voto utile” che peraltro era stata già registrata alle Regionali siciliane.

Se a questo si aggiunge che i pochi elettori del 2013 che hanno lasciato i 5 stelle e non si sono astenuti hanno scelto la Lega (il 6 per cento), si ha un altro elemento che conferma questa maggiore caratterizzazione “di sinistra” dell’attuale corpo elettorale pentastellato.

Ed ecco un primo elemento di riflessione. E alcune domande alle quali i leader del Pd e del centrosinistra dovrebbero provare a dare una risposta. Prima domanda: perché tanti elettori che condividevano i valori fondamentali del centrosinistra hanno preferito un movimento che ha regole non ben definite di democrazia interna, posizioni oscillanti e ambigue su un tema cruciale come l’immigrazione, vorrebbe introdurre il vincolo di mandato per i parlamentari e nel Parlamento europeo si è alleato con Nigel Farage, promotore della Brexit e convinto sostenitore di Donald Trump? Seconda domanda: come mai gli stessi elettori non sono stati distolti dalla decisione di votare per il Movimento 5 stelle dal malgoverno di Roma e dallo “scandalo” dei parlamentari che hanno fatto carte false per trattenere l’indennità anziché versarne la quota pattuita al fondo per il microcredito? Domanda conclusiva: perché tutti questi difetti, chiamiamoli così, del Movimento 5 stelle sono stati ritenuti da tanti elettori del Pd poca cosa rispetto alle manchevolezze dello stesso Pd?

Si possono liquidare queste domande facilmente se si decide di considerare questi elettori in fuga dei traditori o degli imbecilli. Soggetti particolarmente suggestionabili, facili prede delle mode politiche del momento. Una strada semplice, ma molto corta. Oltre la quale c’è il baratro. Cioè la presa d’atto dell’impossibilità di recuperare quei consensi perduti. Oppure si può fare un’altra operazione. Più complicata e faticosa, certo: non dare per scontato che il voto ai 5 stelle abbia determinato in modo automatico la rinuncia da parte di questi elettori ai valori fondamentali ai quali credevano. E ammettere la possibilità che molti di loro abbiano veramente visto nel Movimento grillino la spiaggia, forse l’ultima spiaggia, alla  quale approdare prima di decidere in modo definitivo che “la politica è uno schifo”.

La domanda di sintesi è: cosa, per questi elettori, ha il Movimento 5 stelle che il Pd non ha? Certamente la novità. È un movimento giovane, che non ha avuto modo di sporcarsi le mani nel governo, se non (e a volte male) in quello di qualche città. Ha, soprattutto, una pretesa di purezza e di coerenza nei confronti dei suoi eletti (che non a caso i cittadini, nella visione grillina, devono considerare loro “dipendenti”) che in qualche misura garantisce che non si faranno gli affari loro, non cercheranno di estendere i privilegi di cui godranno dopo l’elezione, e saranno in un certo senso obbligati a lavorare nelle istituzioni con onestà e spirito di servizio. Per inciso, dopo questo risultato elettorale viene forte il dubbio che la campagna di denuncia pubblica dei parlamentari grillini “furbetti”, anziché suscitare diffidenza abbia accentuato la fiducia. E abbia fatto scoprire a molti elettori non tanto che anche tra i parlamentari grillini c’era un certo numero di soggetti che si facevano gli affari loro, ma che la stragrande maggioranza del gruppo parlamentare rinunciava a una parte considerevole dell’indennità per restituirlo allo Stato.

Come è noto le ideologie sono morte da tempo. E con esse si è sgretolato il cemento che univa l’elettore al partito. Gli elettori sono diventati diffidenti. Non concedono più la loro fiducia a priori. Pretendono da chi fa politica comportamenti coerenti. Inoltre sono sempre più informati. Hanno tutti gli strumenti per individuare nepotismi e favoritismi. Se poi sono elettori che vivono in aree colpite in modo particolare dalla disoccupazione, sono ancora più sensibili e attenti. Capiscono se il leader sta facendo politica per i cittadini o per un gruppo di amici.

Gli elettori  vorrebbero partecipare alle decisioni. Certo, le modalità del Movimento 5 stelle sono assai povere e schematiche. Certo, i vari referendum grillini on line a volte sono apparsi largamente pilotati. Certo, la “piattaforma Rousseau” è un oggetto in parte misterioso. Ma quali occasioni di confronto, quali “momenti decisionali” ha un elettore del Partito democratico un istante dopo che – ogni qualche anno – vota alle primarie per la scelta del segretario. E dopo? Cosa succede nelle città e nelle regioni? Decidono gli elettori e gli iscritti o i vari capicorrente che ora si alleano, ora si dividono, in base a strategie così imperscrutabili da apparire ai più dei puri esercizi di potere?

Il discorso delle “semi-dimissioni” di Matteo Renzi è stato, da questo punto di vista, molto importante. Perché ha chiarito definitivamente che l’ex uomo della rottamazione agisce esattamente con la stessa logica politica dei rottamati. E se l’aderire a quelle logiche poteva essere forse inevitabile in una fase iniziale, risulta incomprensibile oggi. Renzi controlla interamente il partito e quel che resta del gruppo parlamentare. Ma nemmeno a partire da queste condizioni – a rottamazione effettuata, diciamo – apre le porte a un vero dibattito che coinvolga l’intero smarrito popolo del centrosinistra.

Eppure potrebbe essere proprio questo il momento giusto. E’ infatti difficile credere (anche perché a crederci bisognerebbe semplicemente sciogliere il Pd e anche il centrosinistra) che tutti gli elettori che sono andati altrove abbiano abbandonato la visione del mondo e della politica che anni prima li portò ad aderire, spesso con autentico entusiasmo, al progetto di Romano Prodi. Chi ha un ideale, una convinzione forte, è proprio nei momenti di difficoltà che si fa avanti. Ci sono, per fortuna, molte persone capaci di correre in soccorso dello sconfitto, se stimano lo sconfitto e pensano che potrà essere ancora utile.

In fondo la scelta di Carlo Calenda di annunciare proprio dopo la disfatta la sua iscrizione al Ps appartiene a questo tipo di dinamica. Ma con una differenza fondamentale. Calenda ha le spalle larghe e la voce forte. Entra nel Pd sapendo che dovranno ascoltarlo. Ecco, questa è proprio la percezione che manca a chi entra nei circoli del Partito democratico. E spesso scopre che non si è iscritto a un partito, ma a una sua componente. E che il “dibattito” è, in realtà, quando va bene, un’attività di mediazione, una distribuzione di posti di controllo e di potere. Piccolo o grande che sia. In quel momento può dire che, tutto sommato, la “piattaforma Rousseau” poi non è così male.

G.M.B.

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