La Cagliari e la Via Roma pedonalizzata. Prima che alla “Grand Place” bisogna pensare al traffico (e all’idea della città)

I favorevoli e i contrari all’esperimento della cagliaritana via Roma pedonalizzata hanno formato, come nella famosa canzone di Giorgio Gaber, le categorie di sinistra e di destra, con l’andare a piedi come opzione progressista e, al contrario, l’utilizzo dell’auto come scelta conservatrice (tutto il contrario, notate, di quel che accadeva circa un secolo fa).

Appare quindi opportuno liberare il problema dal vocabolario della politica per affrontarlo con quello dell’urbanistica o, per meglio dire, della storia urbana. Cioè cercando di analizzare i ritmi, i flussi, le consuetudini e le necessità di chi le abita e le vive, in passato ed oggi. Partendo da una considerazione fondamentale, l’essere tutte le città degli organismi delicatissimi, su cui occorre intervenire con molta prudenza ed altrettanta accortezza. Perché rischiano di soffrire e di far soffrire chi ci vive, con il ripetersi di quel che tentò, fallendo, un grande come Le Courbusier, quando ritenne di dover “rivoltare” le città, sostituendo la privacy della domus familiae con le sue impersonali unità abitative collettive. È infatti necessario saper “ascoltare la città”, come predica Renzo Piano, rispettandone o accompagnandone, con leggerezza ed attenzioni, le mutazioni e le abitudini. Senza stravolgerle o violentarle.

Detto questo, torniamo alla via Roma e all’esperimento tentato dal Sindaco della città. Un esperimento, va riconosciuto, che merita attenzione e analisi. Perché esso sottende ad un’antica aspirazione dei cagliaritani di trasformare quella via in un’elegante Promenade des Anglais come a Nizza, liberandola da quell’ingrata sorte d’essere una copia scadente del Quai du port marsigliese, in cui l’aveva ingabbiata il progetto portuale dell’ingegner Edmondo Sanjust, in disaccordo con chi lo voleva più a Est, al di là del molo Ichnusa. Perché via Roma da un millennio e passa è stata s’arruga manna, la strada grande in cui transitavano carri e carretti per imbarcare o caricare merci e derrate provenienti dalle campagne campidanesi. Non sarà infatti un caso che su quella spianata vi fossero stati posti i binari delle due ferrovie che da Ovest (le Reali) e da Est (le Secondarie) servivano i velieri ed i vapori attraccati alle banchine portuali, poste di fronte alla Chiesa di San Francesco (oggi da Paola, e ieri al porto).

E la Cagliari di pianura, quella cresciuta dopo l’Unità nazionale, adottò la via Roma come strada ottimale per il raggiungimento della città, per chi proveniva dai “due Campidani”, da Decimo o da Quartu: un accogliente terminal di ricevimento per la città borghese. Fu allora che inizierà ad essere ritenuta, nella visione di un proto-urbanista come il Todde-Deplano, l’ombelico della nuova Cagliari. Sarà poi un Sindaco assai creativo come Ottone Bacaredda a pensare d’abbellirla con una palazzata a portici e, soprattutto, con una folta cortina di alberi ben fronzuti che la proteggessero dal disordine e dai traffici dello scalo portuale. Così si trasformerà nel vero salotto cittadino, con tre cinema, due alberghi, i grandi magazzini, bei negozi ed i più eleganti caffè-ritrovo: ben altra cosa che s’arruga manna d’un tempo!

Tutto questo oggi non c’è più: la cortina di alberi s’è trasformata in un parcheggio d’auto, i treni non vi arrivano, e il porto s’è trasformato da commerciale in turistico, approdo di yacht e panfili e non più di navi mercantili. Non ci sono più né cinema né alberghi, eppure è rimasta ancora il percorso ottimale per attraversare la città.

Questo, per dirla brevemente, è il problema che la via Roma si porta dietro, da almeno mezzo secolo. Da quando, Sindaco Giuseppe Brotzu, il piano regolatore di Enrico Mandolesi tracciò (1964) l’asse mediano come nuova arteria di attraversamento “a monte” della città, in modo da poterla bypassare. Quella circonvallazione fu iniziata con le amministrazioni Murtas- Ferrara negli anni ‘70 e terminata soltanto con quella di Delogu 25 anni dopo (ma tuttora ci va mettendo mano quella di Zedda).

Purtroppo, ancora oggi – come dimostrerebbe uno studio recente – per ogni 10 auto che debbono attraversare la città da Est ad Ovest e viceversa, ben 4,5 passano per via Roma, che da salotto buono si è trasformato in un’arteria di attraversamento urbano, oltre che di scorrimento più o meno veloce. Così la sua chiusura ha determinato non poche criticità, a iniziare, ad esempio, dai due viali “delle regine” (Margherita ed Elena) che hanno visto moltiplicarsi per 4 o 5 volte il traffico automobilistico, al limite del collasso. Ma è tutta la città che è andata in sofferenza, con tempi di percorrenza abituali dilatatisi a dismisura, causa di eccessi di nervosismi e di infrazioni.

Ancor prima che pensare ad un’immaginifica Grand Place sul mare (che presto sarebbe anche tagliata dal metrò come una torta Sacher), occorrerebbe far sì che la via Roma venisse liberata da quella funzione di arteria d’attraversamento che si porta dietro da troppo tempo. Le parole dette dal Sindaco a commento dell’esperimento – lo si dice con molta umiltà – non paiono convincenti o rassicuranti. Perché non paiono affrontare uno dei nodi storici della mobilità cittadina che finora è stato sempre risolto aggiungendo nuove corsie alla via Roma (oggi sono 10 o 12: una vera autostrada urbana). Perché – occorre tenerlo ben presente – le difficoltà, o le criticità, risiedono tutte, o in massima parte, dal fatto che Cagliari è sottoposta ad una pendolarità interna ed una, ancor più consistente, dall’esterno dell’area vasta che continuano a trovare semplice e conveniente il percorso rettilineo lungo la linea del porto alla intricata tortuosità degli altri percorsi.

Cagliari, come ogni altra città, per essere modificata o trasformata nel suo vissuto, deve essere presa nella sua interezza, cioè abbisogna di un piano globale di viabilità e di mobilità che ne facilitino l’entrata e l’attraversamento. Perché, aggiungo, occorre sempre ripensare la città nel suo insieme, astenendosi dall’affrontarla per parti : per cui, come in questo caso, “libero” dalle auto via Roma e mi “scoppiano” viale Regina Margherita o/e viale La Plaja.

Che cosa trarre in concreto da queste osservazioni? Che ogni programma d’insieme riguardante la città dovrebbe mettere insieme vari tipi di riflessione: una riflessione da urbanista, sulle frontiere e gli equilibri interni al corpo della città; una riflessione antropologica, sulle necessità e le abitudini di vita e di spostamento dei residenti e degli user-cities; una riflessione, infine, su come collocare la piazza o slargo a facc’’e mari all’interno del vissuto attuale. Si dovrebbe quindi operare una vasta opera di attento “rammendo” urbano, raccordando, nel limite del possibile, l’esistente con quel che si vorrebbe realizzare.
La soluzione va data quindi alle matite ed alle competenze degli urbanisti, dei sociologi e dei trasportisti, in modo da poter ridare giusti equilibri alla città, migliorandone la vivibilità e la mobilità e, soprattutto, operandone nel concreto il suo efficace “riaffaccio” sul mare.

Paolo Fadda

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