La Bper diventa Società per azioni. Ecco cosa rischia il Banco di Sardegna

La trasformazione in SpA della Banca Popolare dell’Emilia Romagna (Bper), oggi società cooperativa, resa obbligatoria dal recente provvedimento del governo Renzi, sembrerebbe destinata ad avere anche delle ripercussioni in Sardegna, dove – come si sa – detiene il controllo del Banco di Sardegna, della Banca di Sassari e della Sardaleasing.

E questo perché quegli effetti della trasformazione porterebbero sia a delle modifiche negli attuali assetti di governo della banca modenese, che alla necessità di effettuare delle probabili fusioni con le altre banche popolari interessate dal decreto governativo. Eventi, questi, che non potrebbero che arrecare degli effetti (è difficile valutare quanto importanti) sulle sue controllate sarde.

Occorre infatti precisare che il decreto governativo ha previsto per otto banche popolari cooperative, fra cui l’istituto modenese, l’obbligo di trasformarsi in società per azioni entro 18 mesi. Ciò determinerà non solo l’abolizione del c.d. “voto capitario” (ogni socio un voto, indipendentemente dalle azioni possedute) su cui esse hanno costruito e difeso le loro governance di controllo, quanto l’apertura ad un azionariato di nuovi investitori, siano essi dei fondi esteri o degli intraprendenti tycoons nostrani, come quell’Andrea Bonomi che già tentò l’operazione con la Popolare di Milano, ma dovette poi arrendersi di fronte allo sbarramento postogli proprio dal voto capitario.

Un vincolo, quest’ultimo, che ha permesso di perpetuare il controllo delle Popolari a delle ristrette consorterie di soci (anche in Bper, anni fa, si registrarono infuocatissime e rissose assemblee per tentare di scalzare il gruppo di comando, senza risultato), chiuse ermeticamente ad ogni inserimento esterno (a Modena i votanti, di persona o per delega, non sono mai più del 20 per cento del totale di 90 mila).

Proprio Alessandro Vandelli, che è l’uomo al comando oggi della Bper, commentando la riforma imposta dal governo, non ha esitato ad esprimere i suoi timori e le sue contrarietà.  «L’abolizione del voto capitario per le banche popolari – ha spiegato – rischia di farci diventare preda dei finanzieri del private equity. Se fino ad oggi la presenza nel capitale di fondi e soggetti istituzionali (fondazioni) è stata poco incisiva poiché non si sono occupati granché della governance, ora lo scenario potrebbe cambiare radicalmente». Paventerebbe anche il pericolo d’una contendibilità borsistica della banca, favorita dal fitto passaggio di mano di azioni registratosi proprio in questi giorni.

Ora, a causa di questo cambiamento di scenario evocato da Vandelli, starebbero prendendo corpo le voci di nuove ed importanti concentrazioni bancarie, a cui non rimarrebbe estranea la stessa banca modenese. Infatti, starebbe tornando di attualità il progetto di una sua fusione con la Bpm (la Banca Popolare di Milano), ambedue quotate in borsa e molto compatibili per diffusione territoriale. Promosse chiaramente da intenti difensivi degli attuali gruppi di controllo. Un disegno, questo della fusione, che sarebbe ben visto dalla stessa Banca d’Italia, in quanto utile per dare maggiore consistenza e solidità competitiva alle due banche.

In conclusione, sarebbero due gli scenari ipotizzabili come seguito della trasformazione: il primo con una Bper sotto stretto controllo di un nuovo azionista “di riferimento”, divenuto tale grazie alle new entry di investitori privati; il secondo scenario potrebbe portare alla nascita di una nuova grande banca nazionale (Bper più Bpm), senza più specifici radicamenti territoriali, ma anch’essa aperta alla contendibilità di nuovi possibili azionisti (banche estere, fondi, investitori privati).

LE CONSEGUENZE SULLA SARDEGNA

Ed allora – occorre domandarsi – come valutare questo scenario dall’osservatorio sardo, giacché le sorti future d’una Bper SpA non potranno che incidere sugli attuali suoi interessi nell’isola? Quale futuro, quindi, potrà essere ipotizzato per il Banco di Sardegna? E, conseguentemente, quale sorte potrebbe avere la partecipazione azionaria detenuta dalla Fondazione? Ed ancora, quale ruolo intende svolgere la politica sarda?

Nelle due ipotesi più sopra considerate, infatti, il Banco di Sardegna potrebbe rischiare di perdere quel poco di identità regionale che gli è rimasta, se non di scomparire del tutto. Nell’avanzare queste due ipotesi così negative, noi di Amsicora abbiamo cercato di immaginare un possibile scenario allorché le “popolari spa” avranno un “padrone” (un azionista di controllo) che ne determini le strategie. Ed in questa ipotesi avrà un peso notevole la debolezza attuale del Banco di Sardegna, sia in termini di consistenza che di redditività.

Ora, per chi conosce le sue vicende recenti e meno recenti, sa bene quanto gli anni ’90 del secolo scorso gli furono funesti, a causa di disavventure speculative, di acquisizioni sballate e di sventatezze gestionali. In breve, al Banco venne a mancare gran parte della sua redditività, tanto che il rapporto “margine di intermediazione/dipendenti” si assottiglierà in quel decennio terribile di quasi il 50 per cento, e soprattutto le sofferenze, rapportate al patrimonio, sarebbero passate da poco meno del 10 a circa il 90 per cento (perché dentro c’erano le spericolatezze creditizie con i vari Ferruzzi, Tanzi e D’Ambrosio, ecc.).

Sarebbero state queste alcune delle ragioni che portarono nel 2000 la Banca d’Italia ad imporre l’entrata in maggioranza di un importante socio bancario: purtroppo la cura dimagrante del suo patrimonio non si sarebbe arrestata neppure con la gestione della Bper, dato che quei banchieri l’avrebbero alleggerito, uno dopo l’altro, dei suoi più appetibili assets. In più l’avrebbero via via privato della sua autonomia operativa, trasmigrata anch’essa in quel di Modena, annullando così, quasi del tutto, il suo radicamento nell’economia dell’isola.

Il Banco d’oggi è nient’altro che un insieme di sportelli diffusi nel territorio, non certo una vera ed efficiente banca territoriale, come lo era stata invece nel ventennio di direzione (1969-1989) d’un banchiere come Angelo Giagu-Demartini. Non vi è dubbio, quindi, che le novità che interesseranno a breve la Bper, con le possibili modifiche nel suo gruppo di comando, non potranno che influire sulle sorti del Banco. Che potrebbe entrare anch’esso in quel risiko innestato dalle trasformazioni decretate dal governo. Con l’ipotesi, abbastanza probabile, di una sua incorporazione nella nuova Spa, mettendo in atto così, con buona probabilità, un’operazione swap (concambio di azioni) della partecipazione in mani della Fondazione.

Tutto questo può lasciare indifferente la Fondazione e, con essa, la politica sarda? Noi riteniamo di no. Perché quanto si è ritenuto di dover subire silenziosamente nel 2000, non debba né possa essere ripetuto. Certo, per quel che potrà decidere la Bper sul suo futuro (e su quello del Banco) i margini d’influenza delle nostre istituzioni sono obiettivamente assai ristretti, ma quel 49 per cento di capitale (varrebbe, pressappoco, tra i 550 ed i 600 milioni di euro) potrebbe avere un certo peso, soprattutto se lo si intenda utilizzare a favore dei reali interessi della Sardegna.

IL PERICOLO DELLA SCOMPARSA

Certo è che la definitiva scomparsa d’una banca sarda che sia effettivamente docg, cioè un’abile ed autonoma intermediatrice e valorizzatrice delle risorse finanziarie locali, è sempre più dietro l’angolo. Non sarà un danno dappoco per l’isola, giacché già da ora si soffre per via di un’inadeguata infrastruttura creditizia, mal calibrata operativamente nel dare sostegno a quelle microimprese che formano la grande maggioranza del nostro sistema produttivo. Ed i dati di flessione nei crediti bancari concessi nell’isola appaiono sempre più preoccupanti, a conferma di un sistema produttivo che è in forte difficoltà per mancanza di adeguati sostegni finanziari.

Per questo, con gli scritti di Amsicora e con doverosa insistenza, stiamo sostenendo che con la perdita della “sua” banca locale, l’isola, e la sua economia, vanno subendo un grave danno. Trovando un ostacolo invalicabile per poter rimettere in marcia il suo apparato produttivo. Perché, lo sottolineiamo ancora una volta, in difetto di un sistema creditizio “local oriented”, per le tante nostre imprese bonsai (in gran parte con un monoazionista di famiglia) che caratterizzano la nostra economia, non vi può essere né ripresa e né sviluppo. Perché, repetita iuvant, avere una dirigenza di banca che usi lo stesso linguaggio operativo e che abbia l’identico background di cultura dell’imprenditore locale, rappresenta una condizione assolutamente necessaria per rendere facile la domanda e disponibile l’appoggio creditizio. Soprattutto nelle situazioni di grave crisi come l’attuale.

Per far comprendere come queste nostre osservazioni non siano delle fanfaluche, portiamo il caso della Regione Trentino Alto Adige dove, proprio in questo tempo di crisi, il credito erogato dalle banche locali è cresciuto di quasi il 50 per cento, passando da un terzo ad oltre due terzi del totale delle erogazioni effettuate nel territorio!

Eppure noi in Sardegna, dove ci si vanta d’essere in politica un laboratorio d’innovazione e di progresso (forse per esorcizzare su connottu), in pochi anni abbiamo permesso che si disperdesse l’intera infrastrutturazione finanziaria, chiaramente docg, che – con il Banco, il Cis e la Sfirs – i pionieri dell’autonomia avevano realizzato per poter sostenere efficacemente la rinascita socio-economica dell’isola, liberandola dal sottosviluppo.

Quel che intristisce è che non si vadano a ripetere anche stavolta le disattenzioni e le sventatezze che caratterizzarono quell’anno 2000 (allorquando ci venne sottratto il “nostro” Banco), lasciandoci magari solo la possibilità di versare delle inutili lacrime di coccodrillo, perché dispiaciuti e pentiti per non avere effettuato, con decisione, capacità ed intelligenza, tutto quel che si sarebbe dovuto fare.

Amsicora

 

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