Il “miniaturismo”, ecco il virus che rende l’economia sarda piccola piccola

Troppi segnali inducono a doversi seriamente preoccupare per la malasalute sofferta dall’economia sarda. Ma non sono solo i numeri ad allarmare – quel Pil di segno sempre più sotto lo zero, quel Valore aggiunto delle produzioni che ci distanzia sempre più dalle regioni continentali e, ancora, quei crescenti valori dell’inoccupazione e del lavoro nero – quanto la progressiva perdita di competitività del sistema produttivo regionale, afflitto da una costante e progressiva caduta d’efficienza e di redditività.

Occorrerebbe aggiungere, come ulteriore motivo di preoccupazione, l’evidente e continuo deterioramento di quei valori di volontà, di cognizioni, di convinzioni e di obiettivi condivisi che costituiscono il c.d. “capitale sociale” d’una comunità, giustamente ritenuto la precondizione indispensabile per costruire in continuità crescita e progresso. Perché senza la presenza nel territorio di reti, efficienti e coese, di saperi, di competenze, di innovazione e di creatività, non vi è la possibilità di impegnarsi per riuscire a produrre quel valore immateriale che si chiama sviluppo.

La Sardegna d’oggi sembra invece afflitta da un virus malefico, la disgregazione sociale appunto, apparso resistente ad ogni antidoto. Che si appalesa nell’emergere, disordinato ma incalzante, dei microlocalismi, dei corporativismi esasperati, dei negazionismi radicali, dei particolarismi di consorteria, dei campanilismi miopi, dei conflittualismi più o meno violenti, dei clientelismi ingordi e di quant’altri ismi siano capaci di determinare l’impedimento o l’abbandono dei problemi aperti e degli interventi correttivi possibili. Poiché si sarebbe perduto di vista lo stretto rapporto che deve stabilirsi fra coesione sociale, interessi generali e progresso regionale.

Non è facile individuare le cause di tutto questo. C’è certamente a monte di tutto un’evidente debolezza culturale della governance politica, non avendo saputo captare i segnali di quanto stava avvenendo al di là del mare sul piano dell’agire economico, sia nella competizione fra sistemi territoriali e settori produttivi che nell’ampliamento e nella trasformazione della domanda dei mercati e nelle profonde modificazioni registratesi nella divisione generale del lavoro. Errore gravissimo, questo, perché avrebbe procurato l’aumento dello spread esistente fra l’isola ed il continente in fatto di progresso, con la prima rimasta ferma sul passato mentre il secondo avanzava a passo di corsa verso il futuro.

La conferma la si può toccare con mano sui dati dell’import-export regionale (dati Bankitalia 2014) che, al netto dei prodotti petroliferi, ci vede perdenti per diciotto a zero (8.409 contro 462 milioni di euro): il solo settore agricolo risulta battuto, rispetto all’import, per dodici a zero, confermando così che anche il nostro cibo quotidiano è ormai condizionato da quel che ci giunge dal di là del mare.

D’altra parte la stessa produzione lorda vendibile (PLV) del settore agroalimentare isolano perde quattro-cinque a zero rispetto a quella del Veneto e dell’Emilia, pur potendo contare su una maggiore disponibilità di superfici coltivabili. Ancora più allarmante appare il confronto con l’Andalusia (regione spagnola dall’ecoclima similare) dove, per ettaro coltivato, lo spread della PLV raggiunge le otto volte.

Anche in questo settore, come in quello industriale, il problema sta tutto nella dimensione delle imprese, dove prevale il formato bonsai. Cioè nient’altro che il loro miniaturismo. Ed è questa, a modesto parere di chi scrive, la causa principale del trauma economico di cui soffre l’Isola. Perché proprio quella scelta per un bonsai imprenditoriale indica che non si vuole crescere, che si intende rimanere nel formato micro, che l’impegno nell’impresa lo si intende limitare al proprio impiego individuale o, al più, del solo nucleo familiare. Con il rispetto ferreo di quella regola tutta sarda che insegna che per mettersi in società occorra essere in un numero dispari di soci purché esso sia inferiore a tre!

Proprio questo della microdimensione delle unità produttive (e del loro esasperato individualismo) è il principale nodo gordiano che va restringendo, mortificando e sconvolgendo l’economia regionale. Perché più è piccola l’impresa, meno appare interessata a miglioramenti ed innovazioni e, soprattutto, ad andar oltre quel mercato di vicinato che la condanna a rimanere, come oggi s’usa dire per i portatori di handicap, “diversamente valida ed efficiente”. Non dimenticando neppure un’altra criticità incombente: che è poi quella del sommerso. Perché proprio la microimpresa appare come il più attivo ed importante datore di quel lavoro nero che oggi parrebbe aver raggiunto nell’Isola percentuali che sfiorano le due decine.

Ora, occorrerebbe chiedere a chi ha competenza e potere nella governance economica dell’isola di studiare ed introdurre interventi capaci di sconfiggere quest’handicap che condiziona e restringe il tessuto produttivo isolano, rendendolo perdente nella competizione sui mercati e sempre più bisognoso di assistenze pubbliche.

Richiamarsi a quel capitale sociale di cui s’è fatto cenno, ridandogli spazio, contenuti, obiettivi e vitalità, appare quindi come opzione da non abbandonare se, come riteniamo, si condivida il giudizio che “così non si possa andare avanti”. E che ci sia la volontà di dover prescrivere, a questa Sardegna malata, una “cura da cavallo”, seguendo il ricettario dei vecchi medici condotti. Occorre quindi operare, certamente tottus in pari, perché si ritrovino quel coraggio civile, quell’impegno politico, quel fervore etico e quella passione culturale che, in altre circostanze, si era riusciti a possedere per permettere all’economia dell’isola di fare un gran balzo in avanti (nel biennio ’60-’70 del secolo scorso il reddito pro capite dei sardi si sarebbe moltiplicato per tre!). Sarà ora possibile? È necessario crederci, ed è per questo che pare giusto lanciare la sfida perché nasca una “Sardegna 3.0”.

Paolo Fadda

(Economista, già dirigente del Banco di Sardegna)

 

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