Ecco perché l’Isola è maglia nera. Tutte le cifre di un fallimento

C’è un complesso, che chiameremo della “maglia nera”, che da troppi anni costringe la Sardegna nel gruppetto di coda dell’economia nazionale. E sul quale hanno inciso pesantemente due fattori: innanzitutto il “fattore D”, cioè quella dipendenza dalle volontà altrui che ha portato i sardi a consegnare a poteri esterni (siano a Roma o a
Bruxelles, poco importa) la soluzione dei propri problemi; ed ancora il “fattore F”, cioè quell’esasperato fatalismo che li ha sempre resi succubi dell’incedere degli eventi, purtroppo quasi sempre negativi.

Può essere questa una possibile e credibile chiave di lettura giacché la Sardegna, nell’attuale congiuntura economica (così negativa da far parlare di una forte recessione) continua ad aspettare da altri – cioè dai poteri esterni – gli aiuti e le risorse utili per venirne fuori, in modo da avviare la necessaria ripresa. E la conferma la si trova nelle cronache politiche d’ogni giorno. Perché si sono persi per strada i benefici e le capacità di quel “fattore A” che con l’autonomia speciale aveva dato all’Isola la possibilità di “far da sé” nel programmare e realizzare il proprio futuro.

Di questa perdita non è facile capire se la classe politica, sia essa di sinistra, di destra o di centro, si sia resa conto. Perché di temi economici, anche dalle loro parti se ne parla assai poco e male, e quando lo si fa, li si coniuga con le vecchie tiritere sulle colpe altrui, magari dei furisteris ladrones o, ancor più, d’uno Stato ingordo, ingannatore e vessatore. Mai avanzando un seppur timido esame di coscienza sulle proprie responsabilità.
Eppure sono sempre più allarmistici gli indicatori sulle condizioni dell’economia isolana, anch’essa divenuta pesantemente succuba dalla dipendenza esterna. Pochi dati servono a confermare quest’assunto: il valore aggiunto del sistema produttivo sardo (agricoltura + industria), pesa ormai appena un sesto del totale (vale più o meno 29,3 milioni di euro, mentre un terzo abbondante di esso è formato da trasferimenti dallo Stato). Per dirla chiaramente è un’economia esageratamente terziarizzata. Per dirla con il linguaggio più semplice, noi sardi campiamo da quel che importiamo.

In più, quasi il 38% degli emigrati dall’isola in quest’ultimo decennio (sono ormai circa 25 mila) è formato da giovani sotto i 35 anni, in possesso di una laurea o di un diploma: l’Isola va quindi perdendo molte delle sue migliori risorse, soprattutto in capacità professionali (molti di quei laureati sono poi partiti per un master and [non] back).

Diciamocelo chiaramente, senza sottintesi o palliativi di sorta: così non si può andare avanti. Anche perché, anno dopo anno, l’agricoltura va perdendo ulteriore peso (ora vale appena il 3% del Pil regionale, al lordo, peraltro, dei dieci e passa enti pubblici agricoli e delle assistenze varie) ed anche l’industria è interessata da un’inarrestabile marcia all’indietro, tanto da essere retrocessa al di sotto del 15% (meno della metà del dato nazionale: 32%). Negli ultimi cinque anni quella retromarcia dei due settori sarebbe resa anco più evidente dai dati: meno 1,2% e meno 3,1% rispettivamente per agricoltura ed industria. In controtendenza di quanto l’Istat dichiara per il sistema Paese.

Ci sono infine dei numeri che rendono ancor più drammatico lo scenario e denunciano la scarsa produttività del sistema: nelle 33 mila aziende agricole gli addetti sarebbero appena 29 mila (!), mentre nelle 35 mila imprese industriali gli occupati sarebbero 112 mila (media 3,2 addetti, contro 7,3 del Nordest). Sul totale dell’occupazione regionale (552 mila) i due settori rappresenterebbero rispettivamente il 5,2 ed il 20,3% (il dato nazionale dice 3,6 e 27,5%), con il restante 74,5 rappresentato dal terziario, di cui un terzo abbondante sarebbe formato da dipendenti pubblici.

Affermare quindi che i due sistemi principali di un’economia – il primario ed il secondario – si troverebbero in una situazione di evidenti difficoltà e di forti precarietà, non risulta quindi affermazione azzardata. Sui quali sarebbe urgente intervenire, rimuovendo le cause che hanno determinato questo declino. Anche perché, in un’analisi impietosa del bilancio regionale, ci si accorgerebbe che sono troppi, ed anche spesso illogici, i costi improduttivi, cioè quelli che non creano né benefici né sviluppo.

Ci vorrebbe più coraggio e determinazione per impostare un’effettiva e drastica revisione degli interventi di una Regione che troppi hanno inteso debba funzionare come una sorta di “bancomat” per particolari interessi, che siano di casta, di corporazione o di campanile non fa poi differenza.

Molte di queste diseconomie sono dovute ad una situazione di evidenti e crescenti difficoltà strutturali per il sistema produttivo regionale. Il fatto che il lavoro nero abbia raggiunto in questi ultimi mesi valori da capogiro, ne è l’impietosa conferma. Ancora: il fatto che i crediti concessi dalle banche alle imprese siano diminuiti di quasi il 15%, che solo una richiesta di fido su tre venga accolta e che gli investimenti siano da tempo in caduta libera (ormai pressappoco vicino allo zero), sono altrettanto pesanti segnali di un declino divenuto cronico.

Metter su o condurre un’industria in Sardegna è oggi un’immane fatica da stare alla pari con quella che castigò Sisifo per l’eternità, tante sono le diseconomie presenti nell’Isola. Perché il fattore dell’insularità, già di per sé penalizzante, unito agli ostacoli insiti in un ambiente locale socialmente e strutturalmente avverso (con dietro il muretto i fucili dei talebani dell’ambientalismo d’abord), fanno sì che il settore dell’imprenditoria risulti sempre più inflazionato da continue diserzioni.

Eppure non ci si dovrebbe arrendere, occorrerebbe ricuperare un’idea forte, capace di fermare ed invertire il ciclo negativo. Occorrerebbe che la Regione (qui intesa complessivamente nelle sue varie istanze) mettesse su le basi per avviare una valida “politica industriale” per far sì che l’industria sarda non venga condannata alla sua estinzione (senza industrie efficienti, ripetiamo, non si va, in Sardegna, da nessuna parte).

Diversi anni fa, allorquando i temi dello sviluppo industriale erano pane quotidiano per la politica isolana, uno dei più autorevoli ed ascoltati guru dell’economia nazionale indicava nella facilità di poter disporre, competitivamente con le aree continentali, di kilowatt d’energia e di capitali a credito, gli strumenti indispensabili che la politica doveva mettere in campo per suscitare investimenti e per far nascere e sostenere le fabbriche. Oggi la situazione si è capovolta, perché l’industria sarda paga energia e credito molto più che le similari imprese continentali. E, soprattutto, viene lasciata sempre più sola di fronte a difficoltà divenute sempre più pesanti.

Infine una domanda che rivolgo soprattutto a me stesso, ma a cui ci si dovrebbe tutti insieme impegnare per trovare un’adeguata risposta: può la Sardegna di questo XXI secolo avere ancora un suo futuro industriale, per far sì che l’emigrazione verso fabbriche overseas non rimanga la sola prospettiva di lavoro per i nostri giovani?

Paolo Fadda

(Amministratore del Banco di Sardegna dal 1968 al 1988)

 

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