Ecco perché il Jobs Act non risolve i problemi del mercato del lavoro. Analisi di Lilli Pruna

Per capire che cos’è il Jobs Act e a che cosa (non) serve si possono richiamare alcuni dei problemi del mercato del lavoro del nostro paese (e della nostra regione). Si capisce così che il pacchetto di provvedimenti ancora incompleto (due leggi e due decreti), chiamato Jobs Act, prescinde completamente dai problemi che ci affliggono da molto tempo e che ci hanno impoverito da ogni punto di vista, a cominciare da quello occupazionale. Non solo non li affronta ma neppure li vede: è una riforma dettata da una grave forma di cecità ideologica.

Il principale problema che abbiamo è la scarsità di lavoro. Ci sono altri paesi in Europa che hanno molta disoccupazione – quasi come noi – ma anche molta più occupazione: la Francia, per esempio, ha “solo” 300mila disoccupati in meno rispetto all’Italia però ha 3 milioni e mezzo di occupati in più; il Regno Unito ha 700mila disoccupati in meno e quasi 7 milioni di occupati in più. Questa è la dimensione delle distanze tra noi e i paesi che hanno una popolazione più o meno come la nostra ma livelli di occupazione molto migliori, per quantità e qualità.
Ci manca molto lavoro non solo perché questa lunga crisi ne ha cancellato parecchio, ma anche perché non ce n’è mai stato abbastanza e una parte del lavoro creato nei decenni trascorsi era troppo fragile per resistere, troppo poco qualificato, spesso improvvisato o legato ad interessi contingenti e di breve respiro. Manca una quantità enorme di occupazione, sia per soddisfare la legittima aspirazione a lavorare (in molti casi la necessità di farlo) di circa 10 milioni di persone (si arriva a questa cifra sommando i disoccupati e coloro che cercano un lavoro o sono comunque disponibili a lavorare), sia per garantire la sostenibilità del nostro welfare pubblico negli anni a venire, quando i figli (numerosi) del baby-boom diventeranno vecchi e usciranno dal mercato del lavoro senza poter essere rimpiazzati da generazioni altrettanto numerose.

Se vogliamo continuare ad avere – e aspirare a migliorare – la sanità pubblica, l’istruzione pubblica, un sistema previdenziale pubblico, politiche socio-assistenziali, dobbiamo fare ogni sforzo per ampliare in modo duraturo, consistente e intelligente la base occupazionale del paese, così da produrre più ricchezza materiale e immateriale, che generi benessere e valore sociale diffuso, distribuendo i redditi da lavoro tra una parte più ampia della popolazione, accrescendo il gettito fiscale e contributivo che alimenta il funzionamento dello Stato e del welfare, e riducendo le disuguaglianze che fanno dell’Italia un paese iniquo e inefficiente.

Il lavoro che manca è quello che corrisponde a ciò che sarebbe necessario avere per migliorare le nostre condizioni di vita e avvicinarle a quelle dei paesi in cui c’è molto più lavoro perché ci sono maggiori e migliori servizi per i cittadini e una cura molto più attenta dei beni collettivi: asili diffusi e istruzione a tempo pieno, formazione continua, controllo e risanamento ambientale, riqualificazione energetica, prevenzione dei fattori di dissesto idrogeologico, mobilità sostenibile e reti di trasporto efficienti, tutela del patrimonio artistico e architettonico, promozione e diffusione della cultura e moltiplicazione degli accessi, ricerca e innovazione.

È un elenco che conosciamo e ripetiamo come una litania, ma i confronti con altri paesi sono concreti e impietosi: la Francia, per esempio, è il primo paese al mondo per numero di turisti, sono quasi il doppio di quelli che vengono in Italia (80 milioni l’anno contro i nostri 50 milioni scarsi), perché non basta essere un bel paese e avere del buon cibo, bisogna credere in una tutela rigorosa dei propri beni pubblici e saper organizzare servizi di qualità “ordinari”, cioè per i cittadini prima che per i turisti. Ancora: solo il 58 per cento degli italiani fra i 16 e i 74 anni usa Internet, mentre la media europea è del 75 per cento, ma Francia, Regno Unito e Germania stanno fra l’80 e il 90 per cento. Questi dati si legano ad altri: l’Italia ha quasi il 42 per cento della popolazione adulta (25-64 anni) che ha conseguito al massimo la licenza media, contro il 25 per cento della Francia e meno del 22 per cento del Regno Unito; per contro, l’Italia ha poco più del 16 per cento di laureati mentre in Francia sono il doppio (superano il 32 per cento) e nel Regno Unito sfiorano il 40 per cento.

Dietro questi numeri – scelti tra i tanti che si potrebbero citare – ci sono scelte politiche e investimenti pubblici molto diversi, competenze gestionali ed efficienza delle amministrazioni, che hanno aperto spazi occupazionali e attivato processi di innovazione in ampi settori dell’economia e della società, creando molte opportunità di lavoro, in larga parte di alto contenuto tecnico e professionale. Le distanze che questi numeri misurano hanno poco a che fare con il grado di flessibilità del lavoro, eppure nel caso dell’Italia l’attenzione dei governi è ossessivamente concentrata da quasi vent’anni sulla regolazione del lavoro; un’ossessione che ha determinato un peggioramento della qualità complessiva dell’occupazione senza riuscire ad aumentarla né a difenderla dall’impatto della crisi.

Abbiamo perso più di milione di occupati in pochi anni, ma il numero di persone che hanno dovuto lasciare un lavoro è stato ben più elevato: solo nel 2012 hanno sfiorato i 2 milioni e mezzo, di cui 2 milioni per scadenza di un contratto a termine. Dopo vent’anni di flessibilizzazione del lavoro quasi selvaggia, ci ritroviamo con un’occupazione stagnante e di scarsa qualità, una quantità enorme di lavoratrici e lavoratori discontinui (con carriere previdenziali altrettanto discontinue), nuove forme di irregolarità del lavoro (con relativa elusione ed evasione fiscale e contributiva), e la più alta disoccupazione mai registrata.

A fronte di un tale disastro il governo Renzi ha approvato il Jobs Act, che non aumenterà il volume di lavoro, non creerà occupazione aggiuntiva, ma continuerà a indebolire il lavoro e a disabilitare quel che resta della cultura del lavoro che ha fatto dell’Italia un paese di grandi risorse e talenti. Il Jobs Act non interviene sull’economia né su alcun settore specifico ma (ancora una volta) sulla regolazione del lavoro, in particolare sulla “flessibilità in uscita”, cioè i licenziamenti e le relative indennità, consentendo licenziamenti individuali e collettivi anche senza giusta causa e senza possibilità di reintegro dei lavoratori se non nei casi (i più difficili da dimostrare) di discriminazione. Il Jobs Act agevola la riduzione e la sostituzione dei lavoratori, consentendo ai datori di lavoro di disporne con una flessibilità e discrezionalità sempre maggiori e con costi sempre minori.

Questa ennesima riforma completa i cambiamenti profondi introdotti dalle riforme precedenti, facendo in modo che (quasi) tutta l’occupazione possa essere letteralmente fatta a pezzi, cioè frazionabile in “blocchi” (di forma e durata diversa a seconda dei contratti scelti e alternati dalle imprese) e componibile in sequenze variamente combinate e “indennizzate”. Ciò che il Jobs Act è in grado di produrre non è una crescita dell’occupazione ma una moltiplicazione dei pezzi di lavoro e dei lavoratori e lavoratrici che si avvicenderanno a svolgerli, tra un periodo di disoccupazione e l’altro.

Il nuovo contratto “a tutele crescenti” viene considerato a tempo indeterminato ma potrà essere interrotto in qualsiasi momento, perché la durata del rapporto di lavoro sarà decisa unilateralmente dalle imprese non all’inizio del rapporto di lavoro ma appunto in un momento qualsiasi. Le “tutele crescenti” corrispondono ad una monetizzazione del danno che il lavoratore dovrà subire, cioè la perdita del lavoro (è più onesto chiamarle “indennità crescenti”, visto che non sono previste altre forme di tutele), e saranno comunque indennità irrisorie rispetto al danno subito.

Il Jobs Act introduce tre forme di indennità di disoccupazione, non estese a tutti e non uguali per tutti, perché commisurate ai periodi di lavoro e di contribuzione che ciascuno ha alle spalle. Chi ha lavori più lunghi e regolari avrà anche indennità di disoccupazione più elevate rispetto a chi è riuscito a trovare lavori brevi e parzialmente irregolari. Le disuguaglianze quindi restano intatte, l’estrema differenziazione delle condizioni di lavoro e di disoccupazione non viene affatto ridotta, perché i contratti flessibili restano tutti tranne uno (la collaborazione a progetto), quello a tempo determinato viene ulteriormente agevolato e in più diventano flessibili anche i contratti che prima erano a tempo indeterminato. L’instabilità del lavoro è destinata quindi ad aumentare e con essa la differenziazione delle condizioni lavorative, perché si è stabili nello stesso modo ma flessibili in modi molto diversi.

Il Jobs Act è pensato per i giovani ma nel mercato del lavoro ci sono soprattutto adulti (l’80 per cento circa della disoccupazione e della precarietà lavorativa riguardano persone ben oltre i 25 anni); è pensato per un paese in cui si può contare su una rete di servizi per il lavoro moderna ed efficiente ma in Italia non l’abbiamo mai avuta e non sarà facile costruirla, perché in un paese familista nessuno ha mai creduto che per cercare lavoro servissero buoni servizi invece che buoni amici; è pensato per un sistema imprenditoriale che investe nell’innovazione e accoglie le sfide più alte, mentre in larga parte si accontenterà dei generosi benefici fiscali per le nuove assunzioni “a tempo indeterminato” previsti non nel Jobs Act ma nella legge di stabilità: saranno proprio questi benefici fiscali l’unica leva per le assunzioni con i nuovi contratti, in sostituzione del lavoro perduto.

Lilli Pruna

 

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