Banche locali e Fondazioni, un problema nazionale. Ma in Sardegna perdura il silenzio

«Cosa è possibile fare perché la Sardegna mantenga e difenda una sua banca che abbia a cuore principalmente le sorti della sua economia e che dimostri la stessa cultura delle sue imprese? Ed ancora: cosa è possibile fare perché il Banco di Sardegna, oggi “emilianizzato”, possa essere riportato all’interno di una gestione omologata con le esigenze creditizie dell’isola? Infine: può essere fatto qualcosa perché la Fondazione non dia spesso l’impressione d’essere una sorta di “dependance” di un partito politico, ma divenga espressione dell’intera comunità regionale?». Queste alcune delle domande che ci vengono rivolte dai lettori che, a quanto pare, seguono con crescente interesse le informazioni e considerazioni che noi del collettivo Amsicora  pubblichiamo con regolarità ormai da mesi.

Purtroppo non è facile rispondere in modo appagante. I problemi aperti sono tanti, gli ostacoli da superare anche, e certo non è d’aiuto alla loro risoluzione l’assordante silenzio con cui i diritti interessati – dalla Regione alla Fondazione del Banco di Sardegna – reagiscono alle richieste di chiarimento.

Il primo ostacolo da superare riguarda il convincimento (che parrebbe prevalente in molti politici) che la Sardegna non abbia né interesse né possibilità nel difendere il radicamento territoriale della sua banca (il Banco di Sardegna, appunto), sottraendola così al continuo depotenziamento/sradicamento messo in atto dall’azionista di maggioranza. Il secondo ostacolo è costituito dal ruolo svolto dalla Fondazione come secondo azionista – quasi sempre inerme e silente – della banca. Il terzo, infine, riguarda la natura della stessa Fondazione, e le sue relazioni con la politica e le sue dinamiche.

Ma un punto fermo c’è. Ed è l’utilità, per la nostra economia, di una banca a controllo locale. In proposito val la pena di rileggere quanto la banca centrale scrive nel suo ultimo suo bollettino congiunturale (del dicembre 2014) sulle economie regionali:

«In tutte le aree del Paese, nel corso della crisi economica e finanziaria (2008-2013), il credito erogato dalle banche locali alle imprese ha presentato in genere una dinamica più sostenuta rispetto a quella degli altri intermediari. Questa dinamica ha comportato un aumento della quota di mercato delle banche locali, purtroppo di diversa intensità tra le regioni italiane. Alla fine del 2013 la quota di mercato delle banche locali sui prestiti al settore produttivo era massima nelle regioni del Nord Est (27,4 per cento, con punte di oltre il 60 per cento nelle province autonome di Trento e di Bolzano), minima in quelle del Nord Ovest (12,1 per cento, con una presenza modesta in Liguria). Anche nelle regioni del Mezzogiorno e nelle Isole, dove peraltro si è sofferta maggiormente la concentrazione fra banche locali e gruppo nazionali, la quota effettiva è risultata particolarmente modesta. Con riferimento poi ai prestiti alle imprese, il differenziale di crescita a favore delle banche locali rispetto alle altre, risente di numerosi fattori, tra cui la dimensione media delle imprese finanziate e il loro settore di attività. In particolare, nel portafoglio crediti delle banche locali le imprese con meno di 20 addetti pesavano nel 2013 per oltre il 30 per cento, circa il doppio della corrispondente quota per le altre banche; rispetto alle banche non locali, i prestiti delle banche locali alle imprese sono particolarmente indirizzati verso i settori dell’agricoltura, delle costruzioni e dell’immobiliare, a fronte di una quota minore dei finanziamenti destinati all’industria manifatturiera.
«Tra il 2007 e il 2013, i tassi di interesse sul credito a breve termine alle imprese applicati dalle banche locali sono stati mediamente inferiori rispetto a quelli degli altri intermediari: alla fine del 2013 il divario si collocava attorno a 1,5 punti percentuali in tutte le aree con la sola eccezione del Nord Ovest, dov’era di 0,4 punti. Divari sostanzialmente analoghi si confermano se calcolati a parità di composizione dei prestiti delle due categorie di banche per dimensione e settore di attività economica della clientela. Inoltre, il minor costo applicato dalle banche locali permane, ed è particolarmente significativo nel Mezzogiorno, anche limitando l’analisi alle imprese che ricevono prestiti da entrambi i tipi di banche».

Chiaro? C’è dunque una ragione effettiva, avvalorata da riscontri obiettivi, per dover difendere la validità, e quindi l’esigenza, di una banca a controllo locale in aree dall’economia caratterizzata da imprese medio-piccole come quella sarda. Perché, secondo il rapporto Bankitalia:
– a seguito della contrazione del credito determinata dalla crisi economica, proprio le banche locali, laddove presenti, hanno aumentato la loro posizione sul mercato nei confronti degli istituti “nazionali”;
– sempre per via della crisi, proprio le banche locali, laddove presenti, non hanno limitato, o chiuso, i rubinetti del credito, ma hanno proseguito nel concedere prestiti ed agevolazioni alle piccole e medie imprese del loro territorio;
– anche in questo settore delle banche locali, è il Sud a segnare il suo differenziale negativo sul Nord del Paese, mentre la Sardegna appare ancor più nelle retrovie, come un Sud del Sud.

Le ragioni, per così dire, “politiche” (così come documentate dalle osservazioni della banca centrale), sarebbero quindi tutte dalla parte della difesa del radicamento isolano del Banco di Sardegna, e non certo per un suo abbandono. Certo, riuscire a riconquistarne il controllo appare anch’esso come un fatto esclusivamente “politico”, e che non può che riguardare la Giunta regionale (ed in primis il suo Presidente, che dei fatti dell’economia è, tra l’altro, un ottimo conoscitore), orientando in tal senso l’azione della Fondazione. Anche perché esiste un retroterra politico comune che dovrebbe in una certa misura rendere più agevole il confronto tra i vertici regionali e quelli della Fondazione.

Peraltro, i persistenti silenzi con cui la Fondazione ha fatto seguire su quanto accaduto sulle sorti del Banco, dallo scippo operato sulla Sardaleasing a quello sulla trentina di filiali nella penisola, non aiutano certo a capire cosa intenda fare, e come intenda muoversi per meglio tutelare la sua partecipazione nella banca.

Ora, se a noi di Amsicora è parso necessario avanzare talune critiche sull’attività della Fondazione sarda, altrettanta ed assai più dura censura viene avanzata, su base nazionale, da diversi autorevoli esponenti del giornalismo, dell’accademia e della politica, all’intero sistema delle ottanta e più fondazioni bancarie. Ecco quanto, sull’argomento, è apparso recentissimamente su un autorevole foglio finanziario del Paese:

«Sulle fondazioni bancarie esiste oggi un problema grande come una casa. Esse paiono essere una sorta di “cassa bancomat”, dotata di ingente denaro con cui si occupa e gestisce tuttora il potere in Italia, formalmente, dicono loro, per riempire un vuoto di un potere in ritirata, ad esempio dello Stato dal welfare o di un mercato imperfetto dalle banche. Nella sostanza si tratta invece di un sistema indirizzato all’arrembaggio del potere stesso, o meglio, per scopi più clientelari che sociali. Ma cosa sono le fondazioni? E, soprattutto, i soldi, tanti, che hanno e gestiscono, da chi provengono? Sono nostri? La risposta è sì. Sono soldi pubblici in mano a privati ben selezionati e protetti dall’appartenenza a questo o a quel partito. Le fondazioni sono divenute poi una specie di Cocoon (il film in cui alcuni decrepiti anziani malati, in un ospizio americano di lusso, venivano per caso in contatto con acque salvifiche e ringiovanenti grazie alle quali, immergendosi, divenivano improvvisamente vigorosissimi e in gran forma) per dei soggetti che in qualche modo hanno a che fare con la politica (infatti sono diventate dei ricchi ospizi per degli esponenti politici esodati dalle liste elettorali). Tra l’altro è consentito loro di agire in piena ed assoluta discrezionalità, dato che si è dimostrato inefficace il controllo affidato “pro tempore” al ministero dell’economia. Ma dove il problema è divenuto ancor più grave (e delicato), è nel ruolo di azionisti dell’istituto bancario di riferimento affidato loro dalla legge. Interpretato in maniera sbilanciatissima ed attraverso troppe imperizie. Tanto da avere ampiamente “tradito” quella che avrebbe dovuto essere la loro “mission” principale: mantenere e difendere il radicamento territoriale di un sistema creditizio (le Casse di Risparmio, i Banchi regionali, ecc.) sorto a sostegno delle economie locali, sul modello delle Sparkasse asburgiche. Però, quel che sta avvenendo un po’ dovunque appare come il segno d’un fallimento annunciato, proprio per le troppe mani che hanno manipolato negli anni l’originaria legge Amato-Carli, trasformandola in un ibrido giuridico, in una sorta di IGM, cioè in un’istituzione geneticamente meticciata. In cui il denaro pubblico lo s’è fatto incrociare con l’interesse privato dando così vita ad un vero mostro».

Chiaro dunque? Appare evidente come la politica si sia impadronita appieno delle fondazioni (e dei loro pingui patrimoni, facendoli divenire dei “res nullius” a loro vantaggio), tanto da utilizzarle per sistemare i loro brontosauri, per far fare carriera a degli intraprendenti portaborse, per tessere legami clientelari con associazioni di volontariato e di sport più o meno amatoriali, con accademici e con studiosi amici, o per farseli tali: insomma per tessere una densa e diffusa tela di intese e di legami elettorali. E, soprattutto, consentendo che la loro banca si dirigesse verso altri lidi. È stato così in Toscana e in Liguria, nelle Marche come in Romagna: ed in Sardegna?

Non sembrerebbe essere molto diverso, a leggere alcune interrogazioni parlamentari e consiliari presentate da esponenti delle opposizioni. Che ne denunziano, con preoccupazione, oltre all’avvenuta occupazione dei vertici da parte di esponenti del partito di governo, l’inutilità sostanziale della partecipazione detenuta nella società bancaria. Tanto da dover ritenere che sia meglio cederla che mantenerla. Nella supposizione che all’isola le banche locali (come si ricaverebbe dalla storia) porterebbero solo sfiga, guai e dolori, e che l’essere banchiere, “non sia cosa” per noi sardi (dimentichi, magari, dei vari Siglienti, Pieroni, Ferrari e Giagu, tutti dei valorosi manager di banche di successo, dall’indiscusso Dna sardo).

Ora, che il problema sia esclusivamente nelle scelte della politica, non vi può essere, quindi, dubbio alcuno. Perché sono sempre i politici ad avere in mano la Fondazione, la sua governance e le sue attività. Ed è la politica, quindi, che deve dare una risposta a quel che chiedono, attraverso i nostri lettori, i sardi che hanno a cuore le sorti della loro economia (e, per essa, della loro banca). Perché, ricordiamolo, il patrimonio della Fondazione è un patrimonio originario della comunità dei sardi, cioè si tratta di soldi pubblici del cui corretto e proficuo impiego si deve essere chiamati a risponderne pubblicamente (così come dovrebbe essere fatto, ad esempio, per le partecipazioni in portafoglio nel Banco e nell’IVS Group).

Amsicora

P.S. Nonostante il persistente ed ermetico mutismo mostrato dalle istituzioni interessate, noi continueremo imperterriti nella “crociata” perché venga data sollecita e ragionevole informazione all’opinione pubblica: (a) del come vengano utilizzati gli 800 e passa milioni di euro che sono un bene nostro, cioè di tutti i sardi; (b) del come si ritenga di dover gestire il rapporto parasociale con l’altro azionista, affinché il Banco di Sardegna possa ritornare ad essere un efficiente ed autonomo istituto di credito all’esclusivo servizio dell’economia isolana.

 

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