Avventure e disavventure di Cappellacci

Egregio Signor Cappellacci,

pur non osando accostare la sua figura a quella dell’imperatore Vespasiano, la sua invettiva contro questo “giornaletto di sfigati”, come lei amabilmente ci definisce, richiama alla mia memoria la celebre frase pronunciata da quello: pecunia non olet. Frase che egli, raccontano gli storici, pronunciò in risposta al rimprovero mosso dal figlio per la tassa imposta sulla raccolta delle urine.

Sì, Cappellacci, i soldi non hanno odore. E non mi riferisco all’accusa che le viene mossa dalla magistratura, quella di avere intascato la più classica delle tangenti secondo il più classico cliché da Prima Repubblica, ma mi riferisco invece al nostro approccio di giornalisti liberi verso questo malcostume della corruzione. Che coinvolgano uomini di destra o di sinistra, amici nostri o nemici, e soprattutto che a lei piaccia o no, noi delle inchieste scriviamo e rendiamo conto ai lettori, rispettando le regole deontologiche e non nascondendo i dettagli che da esse emergono. Come quelli, degni di Totò e Peppino, della tangente nascosta nel controsoffitto.

Quindi per noi i soldi non hanno odore, cosi come i corrotti non hanno colore.

Si rassereni, i suoi insulti non ci scalfiscono, anzi, ci incoraggiano a proseguire in una professione che o è libera o non è, o è coraggiosa o non è.

Lei, Cappellacci, ci definisce “un giornaletto di pochi sfigati”. Sarà anche così, soprattutto se essere sfigati, nella nobile accezione che lei pare voler esprimere, significa non avere garage pieni di auto di lusso, non poter contare su condizioni di privilegio che consentano di essere eletti in Parlamento senza un voto di preferenza grazie al listino proporzionale (nella sfida uninominale lei infatti è stato asfaltato dal velista Mura, e mai si era visto prima che una barca a vela potesse superare una barca a motore come quella da lei comandata, la Nemo o Omen che dir si voglia); se significa insomma essere lontani dalla dolce vita del potere politico ed economico, ebbene sì, siamo sfigati.

Non è la prima volta che lei, Cappellacci, ha qualche divergenza di vedute con noi giornalisti, e che – me lo permetta – male interpreta la loro libertà di pensiero e di espressione. Una lacuna per la quale si è pure beccato un sonoro rimprovero da parte dell’Associazione stampa sarda.

Le capitò anche quando nominò, e poi giubilò, il suo addetto stampa alla Presidenza della Regione. Un gesto un po’ spericolato, un colpo di teatro per il quale è stato riconosciuto colpevole di un danno all’erario quantificato in 220 mila euro che lei deve restituire alla Regione. A proposito: li ha restituiti?

Lei, Cappellacci, accusa il nostro editore, anzi “padrone”, di fare l’armatore con i soldi pubblici e di affamare i sardi rendendoli prigionieri nella loro Isola.

Le ricordo che il Gruppo Onorato è il datore di lavoro di 500 dipendenti sardi, tutti impiegati con regolare contratto, e che la Compagnia svolge un servizio in convenzione affidato secondo procedure trasparenti e che, almeno a quanto ci risulta, non sono oggetto di indagine della magistratura; come lo è invece la vicenda giudiziaria che la vede protagonista.

E non è la prima. A suo carico risulta anche una condanna in primo grado a due anni e mezzo di reclusione per il crac milionario della Sept Italia, società fallita nel 2010. Auguri per l’appello.

Ma a quei tempi lei non era il Presidente della Regione.

Lo era invece all’epoca dei fatti che le vengono oggi contestati, e che coinvolgono, oltre a lei, esponenti della sua Giunta regionale e suoi stretti collaboratori, che compaiono nella vicenda con la triplice veste di colleghi di studio, militanti del suo partito e collaboratori dell’allora Presidente della Regione. Lei, per l’appunto.

C’è in ballo un finanziamento pubblico da 750mila euro concesso nel 2013 alla società Fm Fabbricazioni metalliche, finanziamento che, a detta dei magistrati, non poteva essere concesso perché mancavano alcuni presupposti. Ma c’era, sempre secondo loro, il presupposto principale: l’amico giusto al posto giusto. E c’è in ballo una presunta tangente che, secondo le accuse, sarebbe stata percepita proprio da lei, attraverso una società costituita pochi giorni prima degli eventi e che porta il nome, letto al contrario, della sua barca: Nemo-Omen. Quando si dice il caso. Ci vuole cortesemente spiegare -le offriamo volentieri lo spazio- di cos’altro si è occupata la società Omen in passato, e quali attività svolge oggi?

Mi permetta una domanda: in quale strano paese al mondo, tra quelli che lei ha in mente, i giornalisti non avrebbero il dovere di occuparsi di una simile vicenda?

Le confesso di non credere ai complotti della magistratura. Mi interessa parlare dei fatti concreti, ed è il mio mestiere. Quindi mi interessa capire tutti gli aspetti di questa vicenda. Non me ne voglia, ma è dai tempi di Pannella che credo poco agli scioperi della fame; vedo che anche lei dopo qualche giorno ha desistito. Nelle foto la vedo piuttosto in forma e me ne rallegro.

Non occorre digiunare: in certi casi è più opportuno, soprattutto quando si ricoprono prestigiose cariche pubbliche nelle massime istituzioni, confrontarsi con la magistratura e dare risposte. Quelle stesse che, credo, si attendono da lei i cittadini.

Guido Paglia

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