IL DOCUMENTO. Pd: siamo un partito o uno spazio politico?

Pubblichiamo la traccia dell’intervento alla direzione regionale del 3 maggio di Silvio Lai, neosenatore, e segretario regionale del partito.

1. Doveroso fare un punto dopo due mesi dalle elezioni e dopo ciò che è avvenuto, anche perché siamo attori e testimoni di fatti che sono novità assolute per il Paese e al quale siamo arrivati con molti limiti, qualche errore e molta impreparazione. Dobbiamo ammetterlo, eravamo innanzitutto impreparati ad affrontare una situazione nella quale la maggioranza in una delle due camere passava attraverso una forza politica che non ci voleva e un’altra che abbiamo da subito dichiarato di non volere noi.

2. Pierluigi Bersani ha da subito tentato di perseguire una strada che costringesse il M5s a scegliere un impegno per il cambiamento e ha trovato sul suo cammino ripetuti no. No ad un governo Bersani, no alla decisioni di scegliere insieme i presidenti delle camere, no a concordare gli uffici di presidenza, no a concordare le commissioni, no alla scelta comune di un Presidente della Repubblica, rifiutando persino, unica forza politica, l’incontro con la delegazione del Pd. A fronte di questi no, segnali ripetuti da parte del Pd che ha scelto due figure come Boldrini e Grasso per le Camere, che ha votato i componenti scelti dal M5s per le presidenze, che ha offerto, pur in seconda battuta, la candidatura di Prodi come una proposta di possibile convergenza sulla presidenza della Repubblica, senza richiedere contropartite per il Governo.

Il tentativo del Pd si basava su due direttrici: a) costruire un governo del cambiamento, e b) fare le nomine e le riforme istituzionali con tutto il Parlamento. Direttrici approvate dalla direzione nazionale del Pd, e dai gruppi parlamentari in due occasioni distinte. I veti contrapposti tra Pd e M5S e Pdl portano alla scelta di Napolitano, nei limiti stretti della Costituzione, a sospendere il tentativo di Bersani, affidando a 10 saggi lo spazio per un programma economico e di riforme istituzionali condivisibili dall’intero Parlamento.

3. L’elezione del Presidente della Repubblica. La proposta di Marini e i tiratori franchi. Errori ma anche affidamenti ritirati, la drammatica riunione della coalizione Italia bene comune. La scelta di Prodi e i franchi tiratori. L’elezione di Napolitano.

4. Quale è la lezione che emerge? Non nascondiamoci dietro ad un dito, il dato è grande come una casa. Il Pd e il centrosinistra si è dimostrato inadeguato come forza politica nel suo insieme ad assumersi una responsabilità importante per il Paese. Lo ha fatto smentendo il suo segretario e decapitandolo per poi riprodurre per volontà di Napolitano e con attori imprevisti dalle regole statutarie e dai processi politici precedenti, lo stesso tenuto risultato. Lo ha fatto non riuscendo a comprendere che il voto a Prodi poteva ancora riaprire una strada per rigovernare il partito e quindi renderlo utile ai processi successivi. E sono passaggi che erano chiari da subito e non mi convincono coloro che parlano del fatto che ci fosse stata poca comunicazione. Poca preparazione del gruppo dirigente si, poca comunicazione no.

Preparazione e forse una difettosa percezione dell’alto compito istituzionale a cui si è chiamati con una elezione del presidente della repubblica in quel momento così delicato e a due mesi dalle elezioni. Qui c’è il fatto più delicato e profondo. Di fronte ad una decisione importante, indicata a maggioranza nelle consultazioni dei grandi elettori e confermata da un voto in assemblea ci si è potuto sottrarre come si trattasse di una scelta di coscienza e non della responsabilità di realizzazione di una rotta definita collegialmente, come quella che in una nave si affida ad un comandante.

Ma quest’analisi non giustifica comunque il fatto che sono mancate due intere regioni che dovevano essere la base di sostegno alla leadership di Bersani. Chi doveva, non ha percepito quanto potesse essere profondo il distacco tra se e quel gruppo parlamentare che pure era stato forgiato con lo slogan della ruota che gira nè la stessa forza esterna di importanti dirigenti del Pd.

Bersani ha disegnato bene il nostro problema come gruppo dirigente: dobbiamo comprendere se siamo un partito politico o se siamo solo uno spazio politico, un luogo dove ci si riconosce temporaneamente e per ciò che ci piace, come una frase o una canzone su Facebook.

Perché se di un partito si fa parte per un progetto che si costruisce nel suo insieme, non possiamo pensare di condurre tutti insieme, ci affidiamo a chi conduce, perché in una nave, se più di uno comanda, la barca non si muove o al massimo gira in tondo. Una forza politica così è inutile per il Paese ha aggiunto Bersani e io condivido questo durissimo giudizio.

Ma non possiamo limitarci a questo, dobbiamo andare fino in fondo nello sguardo sul rapporto tra chi siamo, quello che vorremmo fare e chi ci vota, sulla corrispondenza tra il fine della vocazione riformista e i mezzi che i nostri elettori ci danno. Io temo che siamo stretti tra il consenso del pubblico impiego, dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, la cui rappresentanza è percepita come conservazione quanto soggetto di oppressione fiscale, e una middle class, economicamente stabile, culturalmente impegnata ma radicalizzata nell’antiberlusconismo e indisponibile ad un quadro politico complesso come quello che ci siamo trovati davanti, e spesso alla stessa convivenza di culture differenti nello stesso partito. E in questo percorso spesso si corre il rischio di essere più funzionale ai progetti concorrenti piuttosto che al nostro. Come quando si grida al cambiamento o si muore senza dire in che direzione si cambia e cosa cambiare salvo sempre il prossimo. Io penso che con le differenze ci dobbiamo convivere, come dovremo convivere con il fatto che la seconda repubblica ci consegna quest’ultima occasione, che è insieme una eredità che non avremmo voluto ricevere e una opportunità per non consentire ancora che le nostre istituzioni si trovino in una inspiegabile, quanto inaccettabile paralisi di fronte ad una crisi economica che ci spinge a guardare indietro di anni per paragonarla.

5. Il Governo che abbiamo votato è un obbligo, un frutto non voluto ma che non era alla nostra portata rifiutare, sia perché i conti con la responsabilità del cambiamento li dobbiamo fare, sia perché le conseguenze possono far piacere alle anime belle ma non sono certamente il meglio per il Paese. Un esempio del peggio: se Berlusconi avesse preso 120.000 voti in più lui avrebbe avuto 450 grandi elettori e avrebbe scelto lui da solo il Presidente della Repubblica.

In queste settimane qualcuno mi ha detto che si doteva andare ad elezioni… difficile con un Presidente contrario e inutile con la stessa legge elettorale che consegnava la maggioranza in una Camera ad un partito e la paralisi nella seconda camera. Costretti dunque ad una convivenza per mutare le regole e rispondere all’emergenze economiche immediate, questo è ciò che Napolitano ha visto subito, anche tentando di sottrarsi alla riconferma, che alcuni analisti hanno visto subito e che noi abbiamo negato nel tentativo costato a Bersani segreteria e presidenza del Consiglio, di coinvolgere nel governo il movimento di Grillo.

Otto miliardi da trovare nei prossimi 2 mesi senza considerare l’IMU della prima casa è il compito che avremo saltato se anche si fosse andati ad elezioni. Otto miliardi che si devono trovare senza inasprire la pressione fiscale per evitare l’aumento dell’Iva, per gli esodati, per la cassa integrazione e per rinviare e rimodulare la Tares. Questo è il compito di Letta che cammina con noi su una china difficile.

La china difficile del primo governo a guida Pd e del primo governo, dal dopoguerra ad oggi, con la contemporanea presenza dei due massimi competitori politici. Una contraddizione dalla quale alcuni fuggono ma da cui il Pd e il suo gruppo dirigente non può certo sottrarsi. So che non può essere il nostro governo quello con Alfano vicepremier ma mi chiedo quanto possiamo considerare come altro da noi il primo governo a guida Pd? Alfano non è il mio ministro, ma Dario Franceschini, Andrea Orlando, Cecile Kyenge, Flavio Zanonato, Josefa Idem, Maria Chiara Carrozza, sono ministri Pd sino in fondo, non altro. Insomma le soluzioni nette e semplici non sono di questo tempo politico e cene dobbiamo fare una ragione.

Il nostro Partito ha il dovere di porsi nei confronti di questo governo distinguendo le funzioni, ponendo una propria agenda senza attendere quella posta da Berlusconi o dallo stesso governo, ma voltare lo sguardo dall’altra parte no. Non lo può fare nessuno, e se qualcuno lo fa, si libera del peso ma non si libera l’anima. Innanzitutto non lo possiamo fare per questioni quantitative, perché siamo la maggioranza alla Camera dei Deputati, per ragioni di prospettiva, perché il fallimento della squadra Pd e di questo Governo rispetto ai due obiettivi fondamentali economici e istituzionali rischia di colpire il Pd in maniera profonda e irrimediabilmente.

Non è dunque il nostro governo di cambiamento, quello con il quale pensavamo di cambiare il Paese, ma che sia uguale ad un governo nemico questo no, lo si vede dalle donne presenti (sono donne non solo quelle del Pd), da qualche investimento, da qualche scelta strategica come quella di un sindaco del nordest allo sviluppo economico, dall’apertura alla nuova cittadinanza con il ministro all’integrazione e alle pari opportunità. Governo di fiducia larga dunque per le cose che si possono fare insieme ma non di larghe intese, piuttosto un governo di emergenza per una condizione emergenziale a guida democratica. Apro qui una finestra per commentare positivamente il completamento del governo che ieri il consiglio dei ministri ha approvato.

6. In tutto questo delicatissimo crocevia, della coincidenza dell’assenza di Governo e insieme di un Presidente della Repubblica non nel pieno dei suoi poteri e di un presidente nuovo da eleggere, sono stati fatti diversi errori.Ma non sono gli errori che hanno pesato sulla scelta di Bersani di lasciare la guida del partito, non è stato né l’esito elettorale né il no ripetuto dei grillini

Su Bersani e le sue scelte ha pesato il fatto di non poter contare né su un gruppo dirigente coeso né su un gruppo parlamentare sufficientemente preparato di fronte all’alto compito istituzionale dell’elezione dei vertici della Repubblica, e che di fronte alla prima scelta difficile ha sbandato. Io penso che, alla luce di quello che poi è successo molti di quelli che non hanno votato per Franco Marini, pensando che fosse il viatico ad un governo di larghe intese, oggi non rifarebbero la stessa cosa, perché con quella soluzione ci sarebbe stata ancora la chance di un governo Bersani rinviato alle Camere, ad esempio.

E non sono tra quelli che considera, di fronte ad una scelta basata su regole che ho condiviso, ragionevole dire no pubblicamente, senza sostenerne i costi, quanto dire no nel segreto dell’urna. Nel primo caso ho un tiratore franco, nel secondo un franco tiratore. Capisco che i dubbi possano essere venuti da chi era alla prima esperienza meno da chi l’esperienza politica l’ha maturata in tanti anni e dovrebbe sentire su di se il compito di guida quanto l’obbligo della sobrietà nel comunicare le sue azioni.

Ma più che su questo mi voglio soffermare su altro, sul livello di chi nel nostro gruppo dirigente, nei delicatissimi giorni nei quali il nostro partito a livello nazionale e locale era sottoposto ad una prova esiziale, fondamentale per la sua stessa esistenza, si è lasciato andare. Leggo una ricerca di protagonismo schizofrenico guidato da irrefrenabili pulsioni infantili con post, note, dichiarazioni, interviste, tentativi informi di ottenere in maniera urlata una visibilità individuale senza nessun interesse per il Pd o per il Paese. Ci sono limiti che sono stati superati e stanno danneggiando il partito oltre ogni accettabile condizione, non solo per i contenuti proposti ma per i modi inadeguati e, talvolta, volgari. E in qualche caso senza chiedersi se rappresenti e parli a nome di qualcuno che chi ti ha chiamato a rappresentarlo.

Sta anche qui la differenza tra un movimento che persegue un obiettivo, la lotta dei pastori o i movimenti antitrivelle, e un partito che prepara i suoi dirigenti a diventare rappresentanti nelle istituzioni dello Stato o della Regione. Non è compatibile ciò che abbiamo visto in quei giorni e, per dirlo chiaramente, anche in questi giorni in Sardegna, con un partito che nomina il suo responsabile economico viceministro dell’economia e il suo responsabile esteri viceministro degli esteri del proprio Paese, solo per fare un esempio. Figure che parlano alle cancellerie o sono osservati dagli investitori già da responsabili di partito, prima di rappresentare le istituzioni.

Ognuno di noi quando parla non rappresenta solo se stesso ma una comunità che richiede di essere innanzitutto rispettata per potersi candidare alla guida delle istituzioni. Non si tratta di giudicare sgradevoli o fastidiose le critiche ma di stabilire il confine entro il quale la convivenza rispettosa della casa dove abitiamo è garantita o si fa danno. Bersani ha chiesto di fare chiarezza su questo, per chiarire se un partito che non sia di proprietà può essere guidato senza regole che si rispettano e senza il rispetto che è richiesto a chi decide di farne parte. L’assemblea dell’11 è chiamata ad eleggere un segretario e non una reggenza e a parlare di questo.

7. Ora noi abbiamo il dovere di pensare al nostro compito nei prossimi mesi che ci conducono alle Regionali. Lo dico con convinzione: prima delle elezioni eravamo dati come vincenti certi e sbagliava chi si fidava di queste previsioni, dopo le elezioni ci hanno dato subito per sconfitti e io penso che si sbagli chi pensa questo. Possiamo e dobbiamo vincere. Le elezioni friulane ci dicono che si può vincere anche contro chi ti vuole battere come la destra, o ti vuole distruggere come si propone il capo del M5s. Si può vincere senza ricette predefinite, nelle ultime 4 regionali, tra Lombardia, Molise, Lazio e Friuli, si è visto. Non ci sono formule, ci sono azioni da fare, compiti da assumere, persone e soggetti da non sottovalutare.

Penso che dobbiamo tracciare un percorso che ha tappe precise che ci portino in maniera condivisa alle scelte necessarie per vincere, stabilendo che il Pd vuole vincere le proprie elezioni regionali e che, per farlo, deve lavorare con una strategia e delle responsabilità precise. Serve il Pd unito. Penso che in questo periodo, dalle primarie in poi, abbiamo fatto un forte percorso di reunion, di pacificazione vera e concreta, non di superamento delle aree ma di un dialogo e una relazione corretta tra sensibilità che sono naturali in un grande partito dalla storia ancora breve. Davanti a noi ci sono ancora altri passi che sono alla nostra portata: come da impegni presi nell’ultima direzione ho ringraziato i componenti della segreteria regionale perché è necessario aprire una fase nuova che veda tutti i territori e ogni sensibilità lavorare insieme in un nuovo esecutivo ampio e partecipato che gestisca la fase che ci porta alle regionali e al congresso.

Serve un partito più forte e coeso sui contenuti e gli obiettivi. Dobbiamo per questo facilitare nei territori provinciali le azioni di rafforzamento del partito e dei nostri amministratori superando le residue tensioni e eleggendo i segretari dove non ci siano e, insieme, dare uno spazio conclusivo all’elaborazione programmatica nata nei circoli con il percorso sviluppato lo scorso anno integrandolo, rafforzandolo e consegnarlo alla opinione pubblica e al candidato presidente. Al nuovo esecutivo il compito di chiudere la conferenza programmatica e di scrivere entro l’estate le regole per la selezione del candidato presidente insieme alla coalizione con la quale ci presenteremo, sapendo che essere è più debole e fragile ma che non sarà influenzata dall’esperienza di governo che stiamo affrontando a Roma.

Al nuovo esecutivo anche il compito di proporre i tempi e i modi del congresso tenuto conto delle scelte che farà l’assemblea nazionale il prossimo 11 maggio e della opportunità per noi di non far coincidere scadenza congressuali nazionali e primarie perla leadership regionale. Per noi, in questo momento, più che il congresso nazionale vale l’appuntamento di febbraio 2014, vincere le regionali viene prima di tutto.

E vincerle con il linguaggio della verità che in questi anni non ha albergato dalle parti di viale Trento o di villa Devoto, e che continua a trasferire su progetti onirici e privi di fondamento i fallimenti della Giunta e l’incapacità di affrontare una irrimandabile revisione della spesa pubblica e, probabilmente delle strategie di investimento e spesa europea.

Per mestiere l’attuale presidente della Regione è esperto di fallimenti, rischia di diventare tristemente famoso per il fallimento non solo politico ma anche economico della nostra Regione. Considero inaccettabile la stretta fatta dalla Regione sugli enti locali, come il silenzio che grava ormai sul 5 mese di esercizio provvisorio che non è stato chiesto per non subire l’onta del commissariamento, come è inaccettabile il fatto che in questi 5 mesi la Giunta abbia speso ogni risorsa disponibile entro il patto di stabilità e che si stia rendendo colpevole del più grosso crac di una spa in Sardegna dagli anni ’70 in poi, e parlo della dilettantesca gestione della partita di Abbanoa e delle autorizzazioni chieste all’Unione europea, la stessa che ci ha umiliato con la lettera sulla zona franca e con il giudizio sull’avventura amministrativa e politica della zona franca.Questi sono fatti che impediscono di pensare che ciò che è successo a Roma possa avvenire in Sardegna.

Pur in presenza di una situazione complessa e di un m5s che ha avuto un risultato importante nell’isola, il nostro sistema elettorale garantisce la vittoria e la distinzione tra maggioranza e opposizione. Noi ci sentiamo alternativi a chi sta approvando questa esperienza di Giunta e guardiamo ai prossimi mesi con fiducia e responsabilità.

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