Fondi ai gruppi, ora parlano le “fatture mute”

Le “fatture mute” sono ricevute di spesa senza il nome del pagatore. Le stanno presentando in Procura molti onorevoli. Ma sono “pezze giustificative” che giustificano ben poco.

Gli inquirenti le chiamano “fatture mute”. Sono tali parecchie delle ricevute che molti consiglieri regionali stanno consegnando in Procura per dimostrare le spese sostenute durante il loro mandato, nella penultima legislatura. Sono “mute” perché il nome del pagatore, nonché beneficiario del  bene o del servizio fatturati,  non compare. E sono dunque delle “pezze giustificative” che giustificano ben poco.

LA BATTAGLIA DELLE “PEZZE”. Gli onorevoli sotto inchiesta le pezze giustificative le stanno comunque cercando. E’ un’attività per molti incessante. Frenetica. A volte ha un’accelerazione quando arriva l’avviso di garanzia. Come nel caso di Carlo Sanjust che, dopo la perquisizione nella sua casa di Cagliari, è andato a caccia delle spese sostenute per il suo matrimonio e ha trovato cinque assegni. Altri consiglieri regionali trovano fatture, che non sempre dicono tutto.

TRA BANCHETTI E CONVEGNI. L’inchiesta è sempre la stessa: è quella bis sui fondi ai gruppi del Consiglio regionale. In tutto 24 milioni di euro che, secondo il pm Marco Cocco, non sarebbero stati tutti quanti utilizzati per fare attività politica. Di certo, le “fatture mute” sono decine e decine, e in tutte è indicato solo il committente, ovvero la ditta che ha erogato servizi e prestazioni. Manca, invece, il nome della persona (o del gruppo consiliare) che li ha richiesti. E si va dai pranzi in ristorante all’organizzazione di convegni.

IL RISCHIO DI NUOVI REATI. Ovvio che, in questo quadro, le “fatture mute” non possono essere considerate una prova per dimostrare di non aver commesso il peculato, come nell’accusa del pubblico ministero: una ricevuta senza destinatario può essere stata rilasciata a chiunque, per poi finire in un secondo momento nella mani di chi la presenta come propria. Incorrendo, se scoperto, in un nuovo reato, quello di falso.

LE INCHIESTE PARALLELE. Ecco perché si suppone che il pm Cocco avrà bisogno di tempo per valutare le posizioni di ogni singolo politico, a cui è stata contestata una somma precisa. Un importo che il pubblico ministero ha presumibilmente ricavato incrociando le fatture recuperate in Regione con i movimenti fatti dai consiglieri nei propri conti bancari. Al momento sono 59 i consiglieri regionali che hanno ricevuto un avviso di garanzia. Così divisi: 20 nella prima inchiesta e 39 nella seconda.  In tre – Giommaria Uggias (Idv), Alberto Randazzo (ex Udc passato col Pdl) e Carmelo Cachìa (ex Udeur) sono finiti nel mirino del pm in entrambe le indagini.

LAVORO DA FARE. Le “fatture mute”, però, non si stanno rivelando l’unico nodo investigativo. Tra le pezze giustificative prodotte ci sono anche ricevute emesse da enti parastatali, e nemmeno queste sono valide per smontare l’accusa di peculato. Il committente deve essere un privato. Resta poi da valutare la caterva di biglietti aerei che diversi consiglieri starebbero portando in Procura. E pure su questo fronte il pm Cocco sarà costretto a un supplemento di indagine: per ciascun viaggio andrà valutato il tipo di missione. E gli indagati dovranno dimostrare di essere partiti per svolgere strettamente le loro funzioni di consiglieri regionali. Non altro.

IMMINENTI NUOVI SVILUPPI. Intanto, le indagini si stanno allargando a tutte le forze politiche della massima assemblea sarda: questo è il metodo scelto dal pubblico ministero che, con la prima inchiesta, ha messo sotto la lente le spese del Gruppo Misto e di “Sardegna insieme”. Poi è passato al Pd, dopo aver accelerato sull’unico pidiellino finora indagato, cioè Mario Diana, ex capogruppo. Ma adesso sembra che i fari della Procura siano puntati proprio sulle attività dei berlusconiani. Qualche novità potrebbe arrivare alla fine della prossima settimana.

Alessandra Carta

 

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