Ecco i contrari a sinistra del ddl Zan, li elenca il sociologo Luca Ricolfi

Il ddl Zan è stato affossato al Senato ed è partita la resa dei conti a sinistra sui “traditori” nel voto segreto, con uno scambio di accuse feroce tra Pd e Italia Viva di Renzi. Ma lo schieramento dei sostenitori della legge contro l’omotransfobia non era compatto e nel centrosinistra sono filtrate sensibilità e orientamenti diversi – ferma restando la necessità di individuare degli strumenti per provare a prevenire violenza e discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale di una persona. Già all’indomani del voto sulla cosiddetta “tagliola” il deputato di Leu, Stefano Fassina, ha puntato il dito contro il controverso concetto di “identità di genere”, ovvero uno dei temi – insieme alle iniziative nelle scuole – su cui c’erano più distanze non solo col centrodestra ma anche all’interno del fronte progressista. A ricordarlo anche un editoriale del sociologo Luca Ricolfi sul Messaggero, che parla esplicitamente di una battaglia ideologica sbagliata che – condotta diversamente, cercando una mediazione ed eliminando i riferimenti più divisivi – avrebbe dato al paese forse anche una legge migliore.

Ricolfi ricorda la posizione di diverse femministe e di associazioni impegnate per i diritti di donne, omosessuali e transessuali. “Non solo italiane (Udi, Se non ora quando, Radfem, Arcilesbica) ma oltre 300 gruppi in più di 100 Paesi (Women’s human rights compaign). La rappresentante italiana è Marina Terragni, da decenni impegnata in battaglie per i diritti. A queste associazioni non piace che le donne, che sono metà dell’umanità, siano trattate come una minoranza: ma soprattutto non piace che il mondo femminile, con i suoi spazi e i suoi diritti, sia arbitrariamente colonizzato da maschi che si autodefiniscono donne, come è già capitato – ad esempio – in ambiti come le carceri e le competizioni sportive; per non parlare dei dubbi sui rischi di indottrinamento (e di cambiamenti di sesso precoci) dei minori”. Il tema dell’identità di genere, insomma, intesa come identità sessuale sulla base dell’autopercezione e della sola manifestazione della volontà soggettiva, sganciata dal dato biologico. Anche all’interno del Pd, del resto, c’erano perplessità su questo punto (il sociologo ricorda le posizioni di Paola Concia e di Valeria Fedeli). Ricolfi cita anche le posizioni di diversi studiosi che sul piano giuridico hanno segnalato rischi potenziali per la libertà di espressione; “Gli studiosi, e specialmente i giuristi, che hanno analizzato l’impianto e ne hanno individuato almeno tre criticità: rischi per la libertà di espressione, difetto di specificità e tassatività dei reati perseguiti con il carcere, conflitto con l’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 (“I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere d’istruzione da impartire ai loro figli”). Fra i giuristi che hanno sollevato obiezioni, oltre a diversi costituzionalisti, c’è anche Giovanni Maria Flick, ex ministro della Giustizia del Governo Prodi”.

“Ma forse il caso più interessante e clamoroso di disallineamento con l’integralismo Lgbt di Letta e del Pd – prosegue il sociologo – è quello dell’estrema sinistra, in Europa e anche in Italia. Forse non tutti sanno che, non da ieri, in una parte della sinistra radicale le battaglie Lgbt e più in generale le battaglie sui diritti civili sono guardate con ostilità come “campagne di distrazione di massa” che la sinistra riformista – irrimediabilmente compromessa con il capitalismo e con le logiche del mercato – utilizzerebbero per spostare l’attenzione dal vero problema, ovvero l’arretramento dei diritti sociali. Su questa linea, ad esempio, troviamo filosofi come Jean Claude Michéa e, in Italia, Diego Fusaro. Ma anche uomini politici di sicura fede progressista come Mario Capanna (assolutamente contrario, perché “la legge aggiunge reati, non diritti”), o il sempre comunista Marco Rizzo, forse la voce più severa sui diritti Lgbt e sulle celebrities che di quei diritti si servono per autopromuovere se stesse (ma, è il caso di notare, osservazioni del medesimo tenore sono talvolta venute anche da un riformista doc come Federico Rampini)”.

E poi ci sono alcuni politici progressisti fuori dal coro, “Che hanno il coraggio di dire la loro anche se il partito non è d’accordo. Penso ad esempio a Paola Concia (Pd, sposata con una donna), che nello scorso aprile sollevò varie e argomentate obiezioni, chiedendo di modificare il testo della legge. O Valeria Fedeli (Pd), che nello scorso maggio sollevò perplessità analoghe, pure lei convinta che le modifiche avrebbero potuto migliorare la legge”. Il sociologo chiude tornando sul riferimento all’identità di genere e al caso emblematico di Fassina: “In una conversazione con Il Foglio, giusto il giorno prima dell’affossamento del ddl Zan, Fassina non solo osserva che l’articolo 4 (sui limiti alla libertà di espressione) andrebbe eliminato per il “suo portato di arbitrio giurisdizionale”, ma afferma che “sarebbe gravissimo per il nostro stato di diritto non intervenire sull’articolo 1 (quello che definisce l’identità di genere come scelta soggettiva). “Quell’articolo introduce norme che si configurano come visione antropologica legittima ma di parte. Una visione che non è stata esplicitata, condivisa e discussa, e quindi non può stare nel disegno di legge e diventare progetto educativo universale”. Intestardirsi sui punti divisivi che anche nel fronte progressista generano dubbi ha portato a un muro contro muro che ha portato la legge a essere affossata. Forse val la pena riflettere su questo punto, anche in vista dell’arrivo del deputato Zan a Cagliari per un dibattito su diritti civili e ddl.

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