Emil Abirascid: «L’innovazione è buona idea che si fa impresa. Investirei su salute e cibo»

«Chiunque oggi voglia fare impresa deve avere una visione del futuro ed essere consapevole che il cambiamento in atto è strutturale e riguarda tutti i settori. La sconfitta non è uno stigma anzi, spesso, è un valore in termini di esperienza acquisita». Invitato dalla community R-Innova all’Exmà di Cagliari per parlare del suo “L’innovazione che non ti aspetti. Contesti e visioni per l’impresa”, Emil Abirascid, giornalista, scatta un’istantanea in chiaroscuro dell’Italia. Protagonista di numerose iniziative di successo da Startupbusiness (network dei protagonisti dell’innovazione) allo Smau (la più importante fiera tecnologica italiana all’interno della quale cura l’area dedicata alle startup innovative), Abirascid collabora con il Sole24 Ore e CorriereInnovazione.

Il libro – costruito con i contributi di persone che a vario titolo fanno impresa – è in realtà il pretesto per un ragionamento ad ampio spettro sul tema dell’innovazione in tutte le sue sfaccettature. Partendo da un dato, la facilità nella creazione di un’azienda innovativa: «Virtualmente non occorrono grandi capitali e masse di persone, serve una buona idea che poi sia messa in pratica e questo è possibile a ogni latitudine».

Consapevoli di un cambio complessivo di paradigma: «Chi oggi crea startup ha bisogno di condivisione, deve contare su vari apporti, pensiamo al coworking o ancora all’importanza di un socio di capitale. Elementi che incidono pure sui comportamenti quotidiani e sulle relazioni con beni tradizionali; l’automobile non è più solo un bene da possedere ma un modo per garantirsi il servizio di trasporto in maniera efficace, efficiente, economica e condivisa. Grazie a modi nuovi di pensare».

Nel nostro Paese, questi ultimi non mancano: «Le persone valide con ottime intuizioni abbondano a Cagliari così come da altre parti, ma siamo drammaticamente carenti sotto altri aspetti. Gli investitori – puntualizza Abirascid – non sono in numero sufficiente ma abbiamo da lavorare molto pure sul fonte dell’internazionalizzazione».

Fra le cose da migliorare il settore pubblico e anche l’approccio dello Stato al tema. «La macchina burocratica – spiega – dovrà modernizzarsi a livello di struttura. Lo Stato deve assumere un ruolo non regolatorio e deve occuparsi delle infrastrutture; In Italia c’è un eccesso di ansia legislativa, penso ad esempio alla norma sulle startup che a mio parere è completamente fuori obiettivo perché pretende di definire che cosa è innovativo e che cosa non lo è, anziché lasciare questo compito al mercato. Prendiamo un esempio virtuoso, l’Estonia che ha pensato alla cittadinanza digitale, intercettando il bisogno di un punto di riferimento giuridico per i digital nomads».

Il cortocircuito in atto crea moltissimi problemi, su tutti la fuga all’estero di talenti: «Abbiamo un capitale umano formidabile che scappa e se lo perdiamo, siamo fregati. Tuttavia il fenomeno indica chiaramente una sola cosa, le decisioni prese sinora sono sbagliate. Chi ha una buona idea non attende e va altrove, non necessariamente lontano: a Lugano, nemmeno 80 chilometri da Milano, ci sono tantissime aziende italiane».

La via d’uscita passa per una presa d’atto collettiva sulla necessità di uscire dal guado odierno nel quale a guadagnare sono solo coloro i quali basano le proprie fortune su rendite di posizione, ostacolando chi marcia spedito: «Tutto va ripensato continuamente cercando di intuire i bisogni futuri. Personalmente, se oggi potessi investire, punterei su due settori: medical devices, dispositivi medici soprattutto diagnostici – essenziali per combattere l’insorgenza delle malattie – e agrofood con l’obiettivo di un uso intelligente di terreni e di coltivazioni».

 Giovanni Runchina

 

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