Carcere di Uta. 2/3 VIDEO Dante Lancioni. Fine pena: mai

Cagliaritano, genitori ogliastrini, ha 53 anni. Dice: “La pena ha una funzione rieducativa, ma a me è negata una seconda possibilità”.

Dante Lancioni ha 53 anni (foto-ritratto di Roberto Pili). È il bibliotecario di Uta: “Seimila libri già catalogati e altri tremila che dobbiamo inventariare”. Sei ore al giorno di lavoro, da detenuto modello, al piano terra del penitenziario. Anche Lancioni ha un fine pena, ma il suo non è uguale a quello degli altri: “La mia data è il 31.12.9999”. È il momento più triste dell’intervista collettiva autorizzata a Sardinia Post dal ministero della Giustizia (qui tutti i link di questa seconda puntata dell’inchiesta, qui invece la prima).

C’è poco da spiegare.

Col 9999 viene indicato il ‘fine pena mai’. Nella sentenza è addirittura segnato in rosso, come se ci fosse bisogno di evidenziarlo. Io dico solo: la condanna deve avere una funzione rieducativa. A me, però, è negata una seconda possibilità.

Come fai a resistere?

Per andare avanti, ogni giorno ci si deve impegnare in qualcosa.

Con la riforma penitenziaria, dopo 10 anni possono arrivare i primi permessi e dopo 20 si può ottenere anche la semilibertà.

Io vedo che ci sono ergastolani ancora in carcere dopo 40 anni.

Quanti ergastolani in tutta Italia?

Circa 1.500.

Una definizione di ergastolo?

È una tortura. Ma è tortura anche la quotidiana condizione dei detenuti. Per legge, 15 maiali da allevamento devono essere tenuti obbligatoriamente in un ettaro. Noi possiamo stare anche in quattro in una cella da tredici metri quadrati. Questi non sono trattamenti contrari al senso di umanità. È pesante vivere così. Nessuno pretende lussi. Si chiede solo una quotidianità dignitosa.

Gli ergastolani hanno mai protestato insieme?

Sì, una volta c’è stato uno sciopero della fame, proprio per sensibilizzare lo Stato e l’opinione pubblica sulla nostra condizione.

Cosa c’è nella tua cella?

Nella mia, e nelle altre, c’è un letto a castello e uno singolo. Qui a Uta abbiamo anche il bagno in camera, a differenza di Buoncammino.

A patto che ci possano essere momenti della giornata meno angoscianti di altri, a cosa pensi più spesso?

La morte non è brutta quando il viverla.

L’Italia è un Paese senza diritti per i detenuti?

Siamo 52mila, a fronte di una popolazione di 60 milioni. Siamo lo 0,010 per cento. Perché dovrebbero occuparsi di noi?

Ti hanno mai offeso per la tuo fine pena?

Una volta un medico mi disse che di alternativo all’ergastolo c’era solo la pena di morte.

Che reazione hai avuto?

Ci sono rimasto malissimo. Non me lo sarei aspettato da un medico che lavora a stretto contatto coi detenuti. Ha detto una cosa davvero terribile. È stata una delle pochissime persone che ho incontrato in carcere e mi ha colpito negativamente.

In casi come questi, la solidarietà tra detenuti aiuta?

Qui, tra noi, non c’è colore né nazione. Difficilmente un detenuto viene abbandonato a se stesso dagli altri compagni.

Il tuo titolo di studio?

Sono un ragioniere.

Hai chiesto tu di essere assegnato alla biblioteca?

No, ma in mezzo ai libri sono cresciuto, visto che facevo il tipografo. La lettura è una grande valvola di sfogo.

Un mestiere si può imparare qui dentro?

Dovrebbe essere la funzione più importante di un penitenziario. Poter uscire da qui con la certezza di trovare un lavoro, è la prima condizione per ricominciare davvero.

Il carcere a cosa lo paragoni?

È un po’ come un ospedale, le porte sono aperte a tutti. E ci puoi finire dentro anche per la cosa più stupida.

Alessandra Carta
(@alessacart on Twitter)

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