Carcere di Uta. 1/3 L’aneddoto del direttore su Riina: “Falso come un Giuda”

A Uta non ci sono boss: il braccio del 41 bis non è ultimato. Ma il direttore Gianfranco Pala conobbe Totò Riina all’Asinara. Ecco il racconto.

A Uta mafiosi non ce ne sono. Niente criminali da carcere duro, in isolamento. La massima sicurezza della legge Gozzini. Nel penitenziario del Sud Sardegna il braccio del 41 bis, da 92 posti, non è concluso. L’impresa che aveva vinto l’appalto per realizzare la struttura da 100 milioni – la Opere pubbliche spa dei carlofortini Gariazzo – è fallita prima che i lavori terminassero. “A Roma c’è un fascicolo aperto”, dice il direttore Gianfranco Pala che, però, i boss li ha ugualmente visti in faccia. A cominciare da Totò Riina, trasferito all’Asinara quando Pala dirigeva il carcere bunker sull’isola sassarese (dal febbraio del ’91).

“Riina – racconta – arrivò nell’agosto del ’92”. Tre mesi prima, il 23 maggio, la strage di Capaci, nella quale il procuratore antimafia Giovanni Falcone venne ucciso insieme alla moglie Francesca Morvillo e a tre agenti della scorta. Il 19 luglio il massacro di via D’Amelio: Paolo Borsellino perse la vita insieme a cinque agenti.

“Quel giorno di agosto – ricorda Pala – indossavo jeans e camicia militare. Era tardo pomeriggio. La mattina dopo incrociai di nuovo Riina. Con tono ossequioso, umile, un tono untuoso, mi disse di scusarlo perché non aveva capito che io fossi il direttore. Falso come un Giuda“.

Riina è rimasto all’Asinara sino al luglio del ’97. “Non fu l’unico boss: il ministero della Giustizia ne mandò sull’isola 157”. Tra loro il capo dei Casalesi, Francesco Schiavone, il Sandokan di Napoli. Ma c’era pure un altro capo di Cosa Nostra, Leoluca Bagarella. In cella anche Raffaele Cutolo, il fondatore dell’Nco (Nuova camorra organizzata), soprannominato ‘o professore dai suoi compagni di carcere, perché era il solo che sapeva leggere e scrivere.

“Nel ’92 – continua Pala – furono riaperti due carceri bunker: il Fornelli dell’Asinara e l’Agrippa di Pianosa, in Toscana” Pala non dimentica nemmeno le visite dei parenti: “Venivano una volta al mese. E grazie a loro, in quegli anni, gli alberghi di Stintino, per la prima volta, non chiudevano nemmeno d’inverno“.

E se di Riina il direttore non conserva il migliore ricordo, lo stesso non si può dire per quel detenuto “condannato a 26 anni per un giro di assegni a vuoto e ricettazione”. Pala ammette: “Quella pena sì, mi è sembrata eccessiva. A quell’uomo mi ero affezionato”.

Lacrime, in ogni caso, mai. “Quanto torno a casa, riesco a dormire, bisogna saper staccare”. E a domanda precisa sulla sensazione di aver fallito in qualcosa, Pala risponde: “No. Un direttore ha una sola missione: conoscere i propri detenuti, i loro punti di forza e di debolezza. Ascoltarli quando chiedono un colloquio. Qui a Uta gli incontri sono quasi quotidiani”.

Pala è rimasto all’Asinara sino al marzo del ’98. Prima è stato a Cuneo e al Badu ‘e Carros di Nuoro. Dopo ad Aghero e a Mamone. “Interregno oristanese per due anni”, dice. Nel 2004 l’arrivo a Cagliari, col maxi trasferimento da Buoncammino a Uta il 23 novembre 2014, “il più rapido spostamento di detenuti nella storia di un penitenziario italiano”. In sei ore cambiarono cella in 334, trasportati, a rotazione, su cinque pullman blindati da 22 posti ciascuno.

Alessandra Carta
(@alessacart on Twitter)

Il ritratto del direttore Gianfranco è a firma di Roberto Pili

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