Carcere di Uta. 1/1 Suicidi e autolesionismo. Il direttore: “Solo dimostrativi”

Con questa intervista al direttore Gianfranco Pala, Sardinia Post apre un’inchiesta a puntate (oggi la prima) dedicata al penitenziario.

Una delle finestre sul cortile è la stanza del direttore. Carcere di Uta, strada ovest, Macchiareddu: rettilinei tutti uguali fino al cartello “Casa circondariale Ettore Scalas”. La carreggiata si restringe, la svolta è a sinistra. L’ufficio di Gianfranco Pala – 57 anni, una laurea in Giurisprudenza, “direttore con concorso pubblico perché la libera professione non mi interessava” – è al primo piano. Sono le 9 di giovedì 15 ottobre. La visita di Sardinia Post, autorizzata dal ministero della Giustizia, comincia col controllo documenti, al blockhouse davanti al cancello color panna. Il carcere di Uta è aperto dal 23 novembre 2014: 650 posti sulla carta, compresi i 92 del braccio per il 41 bis. Ma l’ala della massima sicurezza non è finita, “l’impresa è fallita”, lasciando incompiuti anche la palestra e l’anfiteatro. Le celle sono 205, distribuite su quattro piani divisi ciascuno in tre sezioni.

Direttore, un po’ di conti: 558 posti disponibili, di cui 525 occupati, senza considerare i tre detenuti che sono al momento in ospedale. “Carcere già sovraffollato”, a sentire il segretario della Uilpa penitenziari, Eugenio Sarno.

Carcere affollato, non sovraffollato.

Considerando che la struttura è aperta da appena undici mesi, non si tratta esattamente di un primato: nelle celle da due brande ce ne sono già tre.

Se per quello si può arrivare a quattro.

Metri quadrati per cella?

Tredici. E lo spazio per detenuto deve essere di almeno tre metri quadrati. Quindi, è tutto in regola.

Difficile pensare che queste condizioni da minimo sindacale non incidano sul percorso rieducativo, ovvero la funzione del carcere.

L’affollamento non c’entra nulla con l’educazione. Se ci fossero meno detenuti, il carcere sarebbe solo più snello. Tuttavia, qui a Uta, a differenza di Buoncammino, si può stare negli spazi comuni per otto ore al giorno.

Tipologia dei detenuti?

A fronte di una popolazione carceraria di 525 unità, ospitiamo 416 condannati in via definitiva, 74 imputati, 24 appellanti e 11 ricorrenti (in Cassazione).

Il dato è positivo o negativo?

Per me, è positivo. Se il grosso dei detenuti è già stato condannato, vuol dire che la giustizia funziona. E quella di Cagliari funziona benissimo.

Per tornare al report del sindacalista Sarno, in visita a Uta lo scorso 28 settembre, il carcere del Sud Sardegna vale un bollettino di guerra. La Uilpa denuncia intanto 200 casi di autolesionismo.

Di cui il 99,9 per cento di autolesionismo dimostrativo.

Cosa vuol dire?

Prendere una lametta e farsi un taglio verticale, senza alcuna conseguenza. E succede come forma di protesta. Perché magari il detenuto è stato cambiato di cella o vuole spostarsi. In un anno si contano solo uno o due casi di autolesionismo vero, cioè tagli orizzontali, con i quali si possono recidere le vene.

Sui 43 tentati suicidi cosa dice?

Come sopra: quelli veri sono normalmente uno o due. Quest’anno ancora nessun caso (quando questa intervista è stata fatta, era ancora in vita il detenuto che mercoledì si è stretto un lenzuolo al collo e ieri è morto in ospedale. Sentito in un secondo momento, Pala ha detto: “Il ragazzo deceduto era tossicodipendente e alcolizzato, e aveva alle spalle una drammatica situazione di abbandono. Era sotto cura, nel centro clinico interno. Addirittura, qualche ora prima del gesto è stato sentito dallo psicologo, al quale era parso tranquillo).

Anche i suicidi sono dimostrativi?

Se una persona vuole morire davvero, si mette il cappio al collo e salta. In quel caso perde la vita al cento per cento. Nella stragrande maggioranza dei casi, invece, un detenuto si lascia andare lentamente, col solo obiettivo di richiamare l’attenzione ed essere salvato. Appunto: suicidio dimostrativo.

Ha modi un po’ spicci, Direttore?

Dopo trent’anni di professione, abbiamo imparato a conoscere i detenuti, i loro comportamenti e anche le tattiche.

Sono comunque richieste d’aiuto, o no?

In ogni struttura penitenziaria bisogna imparare che non vale la regola del tutto e subito. Si chiede e poi si aspetta la risposta. E anche quando è negativa, viene motivata. In Italia per ottenere qualcosa, basta protestare. Ma in carcere non funziona così. Non esiste provare a impietosire con un gesto all’apparenza forte. Dirò di più: se qui lasciassimo le porte aperte, la gran parte dei detenuti non scapperebbe.

È sicuro?

Assolutamente sì: tanti detenuti ospitati in questo penitenziario non saprebbero dove andare, non avrebbero di che mangiare e vestirsi. Infatti non chiedono la detenzione domiciliare, che è un diritto quando il residuo pena è inferiore ai due anni. Posso dare anche un numero.

Prego.

A Uta 135 detenuti hanno diritto alla detenzione domiciliare. Ma, al momento al magistrato, non è pervenuta alcuna richiesta, che ci verrebbe poi trasmessa. Qui hanno tutto: colazione, pranzo e cena. Dentista, psicologo, cardiologo, oculista e otorino.

Grand hotel Uta, insomma.

Il problema italiano non sono le carceri, affollate o sovraffollate che siano. Il problema è l’assenza di una prospettiva.

Allora il vostro lavoro è inutile?

Noi siamo un pezzo di Stato, non tutto. Di certo, non si può negare che senza una prospettiva, e intendo una famiglia e una possibilità di lavoro, un detenuto continuerà a delinquere, per poi tornare in carcere un’infinità di volte.

Stando sempre al report del sindacato, da novembre 2014 i detenuti ricoverati d’urgenza sono stati 85, “nonostante a Uta ci sia l’ospedale interno”.

Abbiamo il centro clinico, ma non i macchinari per la Tac o per la risonanza magnetica. Se un detenuto non sta bene e si avverte la necessità di esami approfonditi, i medici fanno benissimo a disporne il ricovero in ospedale.

Botte tra detenuti: la Uilpa ne ha contate 26.

Spintoni per decidere quale canale tv guardare, per esempio. In carcere le dinamiche della convivenza non sono differenti rispetto a quelle tra moglie e marito.

I coniugi, di norma, mica si picchiano.

In queste undici mesi, le risse vere sono state due. La più grave quella tra albanesi e sardi.

Com’è finita?

Un albanese medicato al centro clinico per alcune leggere ferite. In quell’occasione sì che se le sono date. In carcere, come fuori, ci sono i prepotenti e i maleducati. E come succede oltre queste mura, partono anche i pugni.

Scioperi della fame: 106 in undici mesi.

Nessuna flebo fatta in conseguenza dell’astinenza da cibo. Si tratta ancora di azioni brevi e dimostrative.

Sette manifestazioni collettive.

Gavette battute sulle sbarre perché, a detta dei detenuti, veniva servito pane duro. O per gli spazi comuni chiusi durante dieci giorni, ma lo si decise in seguito a quella violenta rissa.

Minacce e aggressioni ad agenti: il sindacato ne ha denunciati 63.

Un solo vero episodio: un pugno dato da un detenuto con problemi psichici. Un fatto grave, ma si può comprendere il fatto.

Quanti stranieri ci sono?

Appena il 18 per cento. Siamo in controtendenza rispetto al dato nazionale: nel resto della Penisola la media è del 36, ma da Firenze in su si arriva anche al 65.

Buoncammino che fine farà?

Non ne ho la minima idea. Mi auguro solo che quanto prima si proceda con la manutenzione.

Alessandra Carta
(@alessacart on Twitter)

La foto-ritratto del direttore Pala è di Roberto Pili

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1/3 L’aneddoto del direttore su Riina: “Falso come un Giuda”

1/4 FOTOGALLERY: la quotidianità dietro le sbarre

2/1 Le interviste ai detenuti: Paolo Campus, Dante Lancioni, William Muscas, Elton Ziri

3/1 Alessandra Uscidda, comandante dei poliziotti penitenziari. “Botte tra agenti e detenuti? Falso”

3/2 La geografia del carcere di Uta: nei piani alti i detenuti ‘bravi’

4/1 L’educatrice: “Per i tossicodipendenti serve un’alternativa”

4/2. VIDEO Patrizia Giua: “Prima di stare qui non mi volevo bene”

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