Sulcis, saldi industriali e sciacalli

Nel Sulcis sono iniziati i saldi di fine stagione, ma non delle scarpe o dei vestiti: dei macchinari e dei materiali delle fabbriche. Una volta erano gli strumenti del lavoro e quindi del sostentamento di centinaia di famiglie, oggi vengono smembrati e venduti a prezzi da fallimento.

L’ultima svendita in ordine di tempo riguarda la ex Sardal di Iglesias, piccola fabbrica gioiello di estrusi in alluminio per l’edilizia, già del patrimonio del gruppo Alumix, che dava lavoro a circa cento dipendenti . “L’azienda – ricorda Sandro Contini, ex membro della rappresentanza sindacale unitaria – nel 1996 passè all’Alcoa che la mantenne fino al 2001 quando decise di venderla sotto forma di cessione di ramo d’azienda. Subentrò la società Ali – Alluminio Italia facente capo al gruppo Aliseo Sud di Michael Bruschi che nel 2004 affondò affogato da dieci milioni. Nel 2005 la piccola fabbrica fu presa in affitto dalla Sms (Società Metallurgica Sarda) che richiamò dalla mobilità solo 20 dipendenti. Nel febbraio del 2010, oberata di debiti e senza coperture finanziarie, cessò definitivamente la produzione. L’anno dopo fu dichiarato il fallimento anche della Sms”.

Una lunga storia. “La novità di questi giorni – dice un altro ex della Rus, Bruno Bozzato – è che i Tir stanno facendo la spola per portare via tutto l’alluminio ancora presente nella fabbrica. Ufficialmente per metterlo al sicuro dal momento che non c’è più neppure la guardiania. Ma il sospetto è che siano iniziate le vendite al miglior offerente”.

Ma non solo l’alluminio, anche i macchinari sono in vendita a prezzi di realizzo. E i 18 operai, ormai in mobilità in deroga, vedono pezzo dopo pezzo andare via tutte le speranze di tornare al lavoro. La pressa, cioè il cuore della fabbrica, pare sia in procinto di essere acquistata dal fallimento Sms da un industriale di Brescia con una base d’asta pari a zero, ossia al miglior offerente. In pratica verrà acquistata per un pugno di denari. “Se questa notizia che circola con insistenza è vera, come purtroppo pare – commenta Contini – si può dire che la fabbrica è definitivamente defunta”.

Capannoni una volta frequentati da decine di donne e uomini operosi, che producevano, trasformavano e creavano ricchezza per tutta la zona, oggi sono diventati fantasmi, il silenzio è ovunque. Le zone industriali di Iglesias e Carbonia, le principali della provincia, sono diventati luoghi spettrali, vuoti, senza vita. Qualche cane randagio si aggira senza meta, indisturbato, nelle larghe strade ormai cosparse di erbacce, una volta percorse dai camion carichi di merci.

Quello della ex Sardal non è che l’ultimo caso. Le cronache nelle settimane scorse si sono occupate della svendita di macchinari e materiali in ambito Igea: mezzi meccanici, camion carichi di reti per recinzioni, pezzi di ricambio, il tutto a prezzi da ferro vecchio.

Lo smantellamento è in corso da tempo. Nell’ultimo periodo ha avuto un’accelerazione, ma i primi episodi risalgano a qualche anno fa. Clamoroso quello della Rockwool di Iglesias, la fabbrica di lana di roccia di Iglesias che fu smontata per intero nel giro di pochi mesi e trasferita nei paesi dell’Est. La reazione dei lavoratori fu durissima. “Inventarono” il Rockbus , un vecchio autobus in disuso che diventò la loro casa e il loro quartier generale per quasi un anno. Fu parcheggiato davanti all’ingresso della miniera di Campo Pisano, sede dell’Igea, la società in house della Regione nella quale gli operai chiedevano di essere riassunti e occuparono lo svincolo della statale che porta alla miniera in cui vi è un ponte. Per questo fu chiamata “l’occupazione del ponte”.

Il Sulcis assiste al degrado del suo territorio, alla perdita di centinaia di posti di lavoro, di tutto ciò che si è costruito in un intera vita di sacrifici. I sindacati sono concordi sull’analisi delle cause: la politica assente, una burocrazia contro il cittadino, inadeguatezza delle infrastrutture. Ma c’è anche chi, dall’altra parte, trae vantaggio dal degrado e dalla disperazione. Sono coloro che acquistano dalle vendite fallimentari, a prezzi irrisori, i frutti della disperazione. In genere personaggi che si celano dietro società anonime venute da lontano, a volte anche dall’estero. Ma talvolta sono imprenditori locali che acquistano per due soldi per fare affari nei paesi emergenti, Africa compresa.

E l’industria non è la sola vittima di questo ‘sciacallaggio. Sono anche in atto le svendite alle aste di tante aziende agricole, costruite col sudore di una vita, perché non si riesce più ad onorare i debiti. Emblematico il caso della famiglia Sairu, nella frazione di Terra Segada, a pochi chilometri da Carbonia, che si è vista pignorare dall’ufficiale giudiziario l’intera proprietà agricola, perché venduta all’asta, per un debito di banca non onorato. Un debito, va detto, generato da quel gran pasticcio della legge 44/88 che la comunità europea rimise in discussione cancellando i benefici previsti, creando situazioni da incubo. Risultato: un’intera famiglia spazzata via con tutto ciò che avevano creato dal nulla. La domanda è: a chi toccherà la prossima volta?

Anche nel caso delle aziende agricole, come per quelle industriali, il vero valore degli immobili, delle attrezzature, delle merci battute all’asta è infinitamente maggiore di quello pagato da chi frequenta i tribunali fallimentari. I nuovi affaristi, i profittatori dei saldi di fine stagione.

Carlo Martinelli

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