Pier Paolo Pasolini e “Salò o le 120 giornate di Sodoma”

Se Pier Paolo Pasolini non fosse morto, ucciso il 2 novembre di quarant’anni fa, probabilmente guarderemo con occhi diversi il suo ultimo film, “Salò o le 120 giornate di Sodoma”. O quanto meno non gli daremo quell’aura di opera definitiva, summa postuma di un artista controcorrente e sempre troppo avanti rispetto alla sua epoca. “Salò” è sempre stato visto come un film permeato di morte, premonitore stesso del destino atroce del suo autore: concluso il giorno prima di quella notte maledetta tra l’1 e il 2 novembre 1975, fu proiettato in Francia due settimane dopo, per poi uscire in Italia nel gennaio dell’anno successivo, quando ancora non era nemmeno iniziato il processo a Pino Pelosi; che poi risulterà, giuridicamente, l’unico responsabile per l’assassinio di Pasolini.

“Salò” è vittima, per certi versi, degli eventi roventi di quei mesi, per questo sarà interessante vedere come oggi il pubblico si comporterà di fronte alla sua riproposizione al cinema. Sessantacinque sale – tra cui il Greenwich d’essai di Cagliari – lo programmeranno stasera alle 21 nella versione integrale di 116 minuti restaurata dal laboratorio “L’immagine ritrovata” della cineteca di Bologna e dal Csc. In altre città verrà invece proposto nei giorni successivi: ad esempio a Sassari arriverà il 4 di novembre al Moderno. La proiezione sarà preceduta da un’intervista a Pasolini fatta dal critico di Sight&Sound Gideon Bachmann sul set del film, messa a disposizione dagli archivi di Cinemazero di Pordenone.

Alla sua uscita provocò scandalo e numerose grane giudiziarie al suo produttore Alberto Grimaldi, fatto peraltro piuttosto prevedibile visto che anche altre opere del regista finirono sotto l’occhio della mannaia censoria, acuita stavolta dalla presenza di scene tutt’ora molto forti e disturbanti, necessarie però a rendere il senso ultimo del film: la mercificazione dei corpi attuata dal potere. Pasolini riprende l’opera del marchese de Sade trasportandola dal Settecento agli anni Quaranta della Repubblica di Salò; in questo modo ne fa anche una riscrittura politica legando le nefandezze descritte nel romanzo agli orrori del nazifascismo. Il sesso, che nei film immediatamente precedenti – Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte – era visto come atto gioioso e rivoluzionario al tempo stesso, perché capace di affrancare le classi subalterne con la forza della vitalità, ora è visto come mero atto meccanico volto a sottomettere in maniera implacabile e a ridurre l’uomo a oggetto di consumo.

L’autore di “Accattone” attua un’analisi lucida sulla lotta di classe attraverso un’allegoria delle perversioni del capitalismo, raccontando le sevizie subìte da un gruppo di ragazzi e ragazze, prigionieri all’interno di una villa lussuosa e perpetrate da un manipolo di uomini che rappresentano le varie forme del potere (il Duca, il Monsignore, sua Eccellenza e il Presidente). Il tutto è incardinato in una struttura ripresa volutamente dalla geografia dantesca dell’Inferno, che mano a mano sprofonda nelle aberrazioni più crudeli: girone delle manie, girone della merda, girone del sangue, precedute da un “antiferno” e inframezzate dalle narrazioni erotiche di tre ex prostitute che fanno da chiusura ad ogni segmento.

“Il potere fa praticamente ciò che vuole e ciò che il potere vuole è completamente arbitrario, o dettatogli da sue necessità di carattere economico che sfuggono alla logica comune.”; così Pasolini rimarcava in una delle sue ultime interviste durante la lavorazione del film. Parole che ancora oggi rimangono drammaticamente attuali.

Francesco Bellu

 

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