L’intervista. Metti un pomeriggio a Siddi con Erri De Luca

Erri de Luca, scrittore di punta della Feltrinelli, è in Sardegna. Nell’Isola è sbarcato non per parlare del suo ultimo libro, ‘La doppia vita dei numeri’, come si potrebbe immaginare, ma per disquisire di cibo, ospite del Festival di Siddi ‘Appetitosamente’ .

“Non sono un dipendente dal cibo – dice – sono un autonomo. Sono uno scalatore, un montanaro. Per questo mi tengo in forma”.

Lo abbiamo incontrato prima del suo appuntamento col pubblico di oggi alle 19,30 nella Chiesa di S. Michela a Siddi. Quello con lui è uno degli incontri più attesi dell’intero Festival. Abbiamo parlato di impegno e letteratura.

De Luca, che cosa è rimasto della sua ‘Lotta continua’?

Della Lotta continua non è rimasto niente dal punto di vista del fatto politico, sono rimaste alcune pendenze penali, e qualche persona con la quale sono ancora contento di incontrarmi.

Si può dire che la sua è una vita ‘avventurosa’, tra i vari impegni e interessi che l’hanno spinta verso territori spesso inesplorati. Tra i veri interessi anche l’apprendimento da autodidatta della lingua yiddish e dell’ebraico antico. La domanda è: non si fidava della Chiesa?

Non penso di essere stato un avventuriero, o un avventuroso. Mi è capitato di abitare il 1900, un secolo molto agitato. Dal mio punto di vista il mille e novecento è stato il secolo delle rivoluzioni. Che ha spostato i rapporti di forza in giro per il mondo con questo strumento politico. Dunque, ho appartenuto a una generazione rivoluzionaria perché quello era l’ordine del giorno del mondo, per me, in quel tempo. E poi ho imparato le lingue perché mi piacciono gli alfabeti, il vocabolario. Ho messo tutte le mie competenze, diciamo, dentro la scrittura, cioè dentro un vocabolario. Di certe scritture ho cercato l’originale, il formato originale. Per poter attingere direttamente. E così nell’ebraico antico che è la lingua in cui si è fissato per la prima volta il monoteismo, e quindi l’Antico testamento, affrontarlo conoscerlo, frequentarlo nella sua lingua originale è veramente un’altra cosa, rispetto alle traduzioni. Quindi non è che non mi fido della Chiesa, ma non mi fido delle traduzioni.

Che cosa ha scoperto in questo suo ‘non fidarsi’?

L’importanza della donna, per esempio. Il valore aggiunto che la divinità attribuisce alla donna. Quando estrae, quando ‘fabbrica’ Adam, il verbo ebraico e quello del vasaio che ‘impasta’, impasta la polvere del suolo con il suo fiato divino. Ma quando estrae dal fianco di Adam qualcosa’ il verbo che adopera è ‘costruire’. Cioè estrae qualcosa di semilavorato e lo porta a perfezione. La donna, nella scrittura ebraica di questa storia, è esattamente portata a finitura del manufatto ‘essere umano’ della specie umana. E il prodotto ‘finito’ rispetto al semilavorato del Adam. Quindi, questo che è una cosa evidente in ebraico nelle nostre traduzioni è perso completamente, è smarrito. Anzi, la donna è accusata di peccato originale. Cosa che non esiste nell’originale ebraico.

Esiste da parte sua una tensione verso il sacro che giustifica questo lavoro?

No, non ho giustificazioni. Mi sono impicciato di affari che non mi riguardavano. Solo per passione.

Lei ha definito la letteratura come ‘materiale isolante’. Dal suo punto di vista può anche essere considerata come ‘materiale ordinante’, nel senso che ‘mette ordine’?

Ma diciamo che la letteratura può essere una versione definitiva di una storia. Noi leggiamo dei racconti per esempio sulle guerre napoleoniche, sulla invasione di Russia, ma poi ‘Guerra e pace’ è il formato definitivo di quella storia. Non un libro di storia ma un libro di letteratura da il formato definitivo di quella esperienza. La letteratura può essere l’ultima parola.

Narrativa, saggi, prosa, poesia, teatro, traduzioni: il suo è un lavoro a ‘tutto tondo’, infaticabile, dove ci sono spesso molti riferimenti alla natura, come in “I pesci non chiudono gli occhi”, o “Il turno di notte lo fanno le stelle”. Si può dire che la natura dal suo punto dista sia investita di un lavoro incessante?

Intanto mi trovo d’accordo con l’aggettivo infaticabile: nel senso che per me scrivere non è una fatica. E dunque se scrivo non è che mi faccio una sudata. Anzi quello per me è il tempo festivo della giornata. Il tempo felice. Il tempo ‘salvato’ anche da quello che si chiama lavoro. E poi il rapporto con la natura deriva dal fatto che vado in giro per posti dove noi scarseggiamo. Ad esempio in montagna, dove la nostra specie non si vede. Lì sento di appartenere a un ‘ambiente’. L’ambiente alla lettera in latino vuol dire ‘ciò che circonda’. ‘Ambiens’ è quello che ci circonda. Ecco lì in posti come quelli si sente di essere circondati da una potenza schiacciante, che sta lì prima di noi, che non è lì per accoglierci, che non è un campo giochi, fatto per il nostro spasso, per la nostra gita fuori porta. È un posto estraneo, ostile, potente, magnifico, bello, gigantesco. Lì trovo la mia misura. Quella è la mia taglia: quello di essere minimo nei confronti dell’immenso.

La sua passione per la montagna l’ha portata anche in Sardegna?

Sì, sono andato a mettere le mani su qualche parete sarda. Perché questo è un posto che attira. È un posto celebre negli ambienti degli scalatori. E quindi qui sono venuti tanti scalatori e pure io ho messo le mani sul magnifico calcare che c’è qua. Sono stato a Isili, a Cala Gonone, alla guglia di Cala Goloritzè e in altri posti: ne ho girati parecchi.

Davide Fara

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