Il viaggio sonoro di Marino De Rosas, note magiche dall’Andalusia alla Gallura

C’è un presente alternativo in cui gli Spagnoli non hanno mai lasciato la Sardegna. E così il maestrale ha spinto i suoni dell’Andalusia fino alla Gallura e alle vigne del Campidano, come chicchi d’uva al vento, axina ’e Spagna, su sabbie di calcare dove l’innesto è miracolosamente riuscito. Intrinada, il nuovo disco di Marino De Rosas, è una bottiglia di Bovale piena di musica e appena stappata dalla casa discografica Tronos. Se si tratti di vitigno sardo o iberico, questo è un dubbio che la chitarra non vuole sciogliere mentre ascoltiamo gorgogliare il canto di un’isola immaginaria e bella.

“Intrinada” è il disco più flamenco di Marino De Rosas. Non che la tradizione spagnola fosse estranea ai suoi altri album – tutt’altro. Olbiese, 73 anni, chitarrista dalla fede incrollabile nell’accordatura aperta (un modo particolare di accordare lo strumento diffuso nel blues e in altri generi tradizionali), De Rosas aveva scoperto da tempo come la tecnica flamenca si sposasse bene con la musica popolare della Sardegna. Dall’unione di due mondi musicali ha creato così un suono unico, originale. Nei suoi lavori precedenti abbiamo sentito palmeros battere le mani ritmicamente al suono di una Ninna nanna sarda, alla maniera dei gitani; corde di chitarra percosse con l’intero arsenale della tecnica andalusa – picado, rasgueado, alzapua – sulle note festose di su passu torrau; arie di tango e influenze moresche accompagnare una malinconica ballata in Meridies. Quella tecnica che prima era al servizio di armonie isolane, e che aveva permesso di reinventarle con un tocco di esotismo, ora ha preso il sopravvento. Del flamenco non si sente più soltanto un’eco lontana: è protagonista. “Intrinada” è il disco più flamenco di Marino de Rosas e forse il meno sardo, ma solo perché la sua è una Sardegna che esiste in una dimensione sonora parallela, come una pagina di storia mancata, eppure possibile. Un’isola dove i mori sono scesi dalla bandiera, hanno imbracciato la chitarra e suonato le stesse note che diffondevano nei patios di Cordoba e di Siviglia, felice incontro della cultura araba, ebraica e gitana.

Undici anni sono passati dal suo ultimo disco. Un’eternità per i ritmi abituali dell’industria discografica. Tanto è durata la gestazione di questo nuovo lavoro – un fatto che però non sorprende chi conosce la cura maniacale con cui De Rosas scrive musica. Quasi altrettanto (otto anni) aveva richiesto anche la produzione di Femina ’e mare, l’album precedente, che aveva seguito, con molta calma, il successo del primo disco Meridies. Come certi mirti fatti in casa e posati a fermentare, i suoi lavori seguono i ritmi di una produzione artigianale e a chilometro zero. Anche in senso letterale: le sue chitarre sono prodotte da un liutaio sardo, Rinaldo Vacca.

Il nuovo disco fa un uso ancora più evidente delle tecniche dei grandi maestri del flamenco come Paco de Lucia, cui Marino De Rosas dichiaratamente si ispira. Le note si arrampicano spesso sulla scala araba, ammiccano ad armonie orientali persino tra i menhir pre-nuragici di Pedra fitta. In Alguer morena le corde vibrano come un mandolino al ritmo del tremolo flamenco, i bassi tremano sotto i caratteristici colpi del pollice in Alguer blanca. Anche il tempo sembra assecondare i palos – le categorie tradizionali che dettano i ritmi delle diverse composizioni flamenche – in Passu ’e solea. E il brano che dà il titolo all’album e lo chiude, Intrinada (imbrunire), è una piccola serenata andalusa, sembra echeggiare la Granada di Albeniz nella dolcezza di una sera sarda d’estate. Gli aranceti e il mirto, la melagrana e il lentisco: al fresco di un patio, la musica di Intrinada e degli album precedenti evoca insieme i profumi di due mondi, Spagna e Sardegna, che la storia ha fatto incontrare per 400 anni prima di separarli.

Cristiano Pintus

(Foto da pagina Facebook di Marino De Rosas)

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