Al Carbonia Film Festival il regista Lauren Cantet: “La mia battaglia contro la paura del diverso”

Uno dei fiori all’occhiello del Carbonia Film Festival, che ha preso il via martedì 9 ottobre per la sua nona edizione, è la presenza del grande regista Laurent Cantet come presidente della giuria del concorso per lungometraggi. Francese, classe 1961, è uno degli autori più importanti della cinematografia contemporanea. I suoi film da “Risorse umane” (1999, previsto nel cartellone del Festival il 12 ottobre alle 21) a “A tempo pieno” (2001) da “La classe” (Palma d’oro a Cannes nel 2008) al recente “L’atelier” (2017, anche questo in programma a Carbonia come film di chiusura della manifestazione domenica 14 ottobre), ritraggono le debolezze e le contraddizioni della civiltà occidentale del terzo millennio con una sensibilità speciale, la capacità di affrontare temi importanti con uno stile che arriva, senza snobismi autoriali, a tutti. Riservato, generoso, affabile al Festival incontrerà il pubblico dopo la proiezione dei suoi film. Assolutamente da non perdere, poi, la sua master class domenica 14 ottobre, un evento speciale per approfondire le caratteristiche del cinema dei nostri giorni a confronto con la società complessa contemporanea. Aspettando questa occasione, intervistiamo Laurent Cantet, sempre disponibile a una chiacchierata, nonostante i suoi impegni come presidente della giuria.

Il Festival ha tra i suoi temi il lavoro e la sua filmografia si è orientata con lungimiranza, anche prima della grande crisi, nell’analisi di questo argomento. Attualmente, in quali termini si può parlare di lavoro al cinema?

“Credo che il tema del lavoro sia, all’interno della mia carriera, uno dei miei argomenti fondamentali; filmarlo permette di creare un aggancio tra il privato, i personaggi che metto in scena e il contesto sociale. Il lavoro ha un valore, un riconoscimento sociale, ma, forse, in questo periodo tale elemento passa attraverso altre situazioni, penso, per esempio, all’educazione dei figli. Rimane, comunque, l’urgenza di raccontare del lavoro al cinema. Questo mi sembra evidente quando mi capita ancora di mostrare i miei “Risorse umane” e “A tempo pieno” in pubblico. La gente mi dice che sono film estremamente attuali, dunque quelle problematiche stigmatizzate con quelle pellicole di venti anni fa, ancora non hanno trovato una soluzione. Peraltro, quando decisi di realizzare questi due lungometraggi, la prima reazione dei produttori fu che non avrei mai avuto un pubblico, perché chi è occupato tutto il giorno, per esempio in una fabbrica, non ha, poi, voglia, a fine giornata, di andare in sala e vedere quel tipo di ambiente e contesto. Invece, il relativo successo di quei film dimostrò come la gente aveva bisogno di essere rappresentata sullo schermo. Oggi, mi pare che tale esigenza sia maggiormente urgente. Bisogna, però, osservare come, se da un lato non sono granché cambiate le condizioni di vita dei miei protagonisti, è cambiato sicuramente il cinema stesso, la sua programmazione è basata soprattutto sul puro intrattenimento”

Nei suoi film è presente una speciale attenzione alle nuove generazioni. Quanto è complicato raccontare i giovani col cinema?

“In realtà, quello che mi interessa nel costruire un film, è il confronto con situazioni molto lontane dalla mia; quando scrivo una sceneggiatura cerco sempre di lasciare dello spazio affinché gli attori che interpreteranno quei personaggi apportino la loro consapevolezza e, quindi, arrivino ad arricchire il film con la loro realtà. Mi pongo, dunque, sempre in una situazione di ascolto della esperienza degli altri”

A proposito di attori, lei ha lavorato con grandi interpreti, come, per esempio, Charlotte Rampling, sia con esordienti. Quale è il suo rapporto sul set con gli interpreti?

“Innanzitutto il casting per me è un momento estremamente importante e il mio modo di costruire i provini è di fare improvvisare gli attori, perché ho bisogno di verificare se le ipotesi che ho elaborato durante la scrittura sui personaggi, abbiano un riscontro anche fisico nell’interprete eventualmente scelto. Un altro metodo che utilizzo sono le tante prove, ma queste ultime si basano ancora una volta sull’improvvisazione: leggo agli attori una scena e di questa loro mantengono l’architettura, ma hanno spazio per l’improvvisazione, mentre io prendo appunti e, dunque, in seguito, deciderò cosa mantenere o togliere. A questo punto, arrivo a riformulare i dialoghi utilizzando le loro parole e e la loro sensibilità”

In questo periodo osserviamo, da parte del pubblico, una viva attenzione per il film documentario. Nella sua esperienza, quanto questo genere può raccontarci e rispecchiare adeguatamente la realtà?

“Il rinnovato interesse per i documentari nelle sale ci dice una cosa precisa, ossia esiste una parte del pubblico desideroso che il cinema ponga delle domande, rifletta sul mondo contemporaneo; certo, la maggior parte degli spettatori vuole vedere i blockbuster, i grandi successi per dimenticare la quotidianità. C’è, comunque, una parte di pubblico la quale, invece, ha bisogno di ragionare sul mondo aiutato dal cinema e questo sicuramente, in genere, i documentari lo fanno bene”

Un altro tema del festival è l’emigrazione…

“È un soggetto che mi interessa enormemente e del quale mi sento quasi un militante. In Francia, infatti, ho spesso sostenuto i lavoratori irregolari e i profughi; per me, la diffidenza sempre più diffusa nelle nostre società nei confronti dell’altro deve essere qualcosa da contrastare con tutte le forze. Bisogna lottare contro la presunta paura del diverso, sappiamo bene come, proprio nell’incontro con quest’ultimo e nel mescolare culture e opinioni differenti, ci si arricchisce. In questo periodo, certi atteggiamenti su questi temi, mi indignano. Perciò sono stato particolarmente felice di partecipare al Festival e spero che i film in programma mi aiutino a riflettere su questo argomento”

Attualmente ha dei progetti in corso?

“È troppo presto per parlarne: sto scrivendo…”

Elisabetta Randaccio

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