Profondo rosso, storie di ordinaria disperazione nel Sulcis

Storie di ordinaria disperazione nel Sulcis Iglesiente, il territorio più povero d’Italia.

C’è una regione italiana, la Sardegna, che soffre più di altre la crisi economica. Ma c’è un territorio, quello del Sulcis Iglesiente, che dalla crisi è stato completamente distrutto, sotto ogni aspetto. I numeri, fotografati dal Sils (Sistema informativo lavoro Sardegna) e dalla Camera di Commercio di Cagliari, sono da brivido: in Sardegna nel 2013 quasi 700 imprese hanno cessato l’attività e quasi 4.000 sono in fase di liquidazione.

“Siamo la provincia più povera d’Italia”, dice Giorgio Madeddu, dell’associazione Amici della Vita e medico di base a Iglesias, con l’indice di imprenditorialità più basso della Sardegna e con circa 3000 lavoratori in cassa integrazione, il 35% dell’intera regione. “L’indigenza è senza dubbio la priorità sociale e politica del nostro territorio. Almeno 15 mila cittadini di Iglesias, quasi la metà dei residenti, vivono difficoltà sociali ed economiche. Almeno 1.500 famiglie contano su un sostentamento quasi sempre legato agli assegni dell’Inail e dell’Inps, con un costante incremento di richieste per le pensioni di invalidità: sono considerate le uniche ciambelle di salvataggio in un territorio che non ha più niente da offrire”.

I dati, d’altronde, parlano chiaro. Se negli ultimi cinque anni in Italia la forza lavoro è cresciuta del 2,3%, in Sardegna è diminuita del 2%, ma con punte del 12% nella provincia di Carbonia Iglesias. Gli occupati in Italia sono diminuiti del 2,6%, in Sardegna del 6,8% mentre nel Sulcis si arriva al 18,5%, soprattutto a causa della fermata delle grandi industrie di Portovesme. In Sardegna ci sono quasi 100 mila persone disoccupate a cui si aggiungono altre 145 mila persone che il lavoro non lo cercano neppure più. Di questi oltre 35 mila risiedono nella sola provincia di Carbonia Iglesias, in base ai dati del CSL provinciale aggiornati a maggio 2014.

“Stupisce – racconta ancora Madeddu – che a fronte di una crescita esponenziale degli indigenti sardi, non lieviti parallelamente il finanziamento dedicato ai poveri, magari ridimensionando le spese ‘istituzionali’ spesso inutili. E i finanziamenti disponibili, con le leggi attuali, si traducono spesso in elemosine da parte dei comuni, attraverso gli inserimenti lavorativi a termine e senza un trattamento previdenziale riconosciuto a soggetti svantaggiati e a rischio di emarginazione. In pratica, lavoro nero legalizzato, anziché un regolare contratto a tempo determinato con tutte le sue garanzie, come assegni familiari, trattamento di fine rapporto, malattia retribuita e disoccupazione a fine contratto”.

Ma c’è un’altra parte della società che la crisi economica non solo la vive come il resto della cittadinanza, ma ne è avulsa e condizionata nei comportamenti: sono i bambini e i ragazzi nati durante la crisi. “Loro, i più giovani, rappresentano l’anello più debole colpito dalla crisi – racconta Francesca Congiu, insegnante nella scuola media di Portoscuso – Nell’ambito scolastico si scoprono tutti gli aspetti familiari più intimi e in tempi di crisi come questo è abbastanza comune imbattersi in situazioni difficili che una volta, le famiglie, avrebbero tenuto nascoste, per dignità. E il Sulcis, da questo punto di vista, abbonda di situazioni critiche. Lo si vede, ad esempio, visitando le scuole, il cui stato generale degli immobili è fortemente trascurato, forse perché le poche risorse disponibili vengono utilizzate per il sostegno alle tante, ormai troppe, famiglie in stato di bisogno. Ma è vivendo con i ragazzi che si percepisce l’esatta dimensione della crisi in questa zona”.

Il quadro tracciato dalla docente è impressionante. “Ci sono ragazzi che non studiano perché i genitori, disoccupati o cassintegrati, non hanno potuto acquistare i libri di testo, magari perché li avevano già comprati per un altro figlio. Le gite scolastiche mancate, che hanno una forte componente sociale e partecipativa, sono un altro segnale negativo importante: per molte famiglie quelle poche decine di euro sono indispensabili nel bilancio familiare. Ma negli occhi dei genitori, noi insegnanti, vediamo una grande tristezza, accompagnata da altrettanta dignità, quando vengono a dirci che non potranno mandare, loro malgrado, i loro figli alla gita di fine anno. I ragazzi di questi territori, però, hanno ormai interiorizzato la crisi – dice Francesca Congiu – fa parte della loro vita, la privazione è diventata la norma. Per loro avere dei genitori che si sono incatenati alla porta di un appartamento per non essere sfrattati, è motivo di vanto, sono i loro guerrieri. Non si rendono, invece, conto che quell’esperienza segnerà per sempre la loro esistenza perché ‘degrado porta degrado’”.

In una situazione che sembra non avere sbocchi, molti tentano l’unica soluzione percorribile: affidarsi paradossalmente alla dea bendata. “A questa grave situazione economica diffusa si contrappone la contraddizione, altrettanto diffusa, del gioco d’azzardo nei ‘gratta e vinci’ e nelle slot machine: file di persone, nei tabacchini, per acquistare un sogno che non si realizzerà mai – racconta l’insegnante – sottraendo alle famiglie importanti risorse, che causano sempre più spesso anche la fine dei matrimoni. I ragazzi poi, pensando al loro futuro, scelgono di continuare gli studi negli istituti professionali, non tutti certo, per poter cercare lavoro ‘in fretta’ con una qualifica in tasca, e scappare da quel degrado in cui sono nati. Un lavoro non in fabbrica, però, perché per loro le industrie sono morte”.

Carlo Martinelli

 

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