Le schiave del sesso nigeriane, dall’Africa alla periferia di Cagliari

C’è un’intera zona di Cagliari dove alle prime ore della sera, d’inverno e d’estate, giovani donne, a volte adolescenti, attendono sul ciglio della strada i loro clienti. I corpi quasi nudi, i visi stralunati, ascoltano la musica con gli auricolari, e ballano. Sono ragazze che arrivano da quella che da tanti viene definita “la fabbrica italiana di prostitute all’Equatore”: la Nigeria.  Il Paese dell’Africa occidentale che conta più di 180 milioni di abitanti e che da anni risponde alla domanda crescente di prostitute in Italia come in Sardegna. Prima di arrivare nelle nostre città queste ragazze hanno compiuto un lunghissimo viaggio attraverso l’Africa, un viaggio che dura diversi mesi.

Ce lo raccontano due operatrici della Congregazione delle Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli di Cagliari, ente religioso che dai primi anni del 2000 si occupa della protezione, il sostegno e il reinserimento sociale delle donne vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale. “Nel loro Paese d’origine queste giovani donne sono a loro volta già vittime di una società che le considera un peso, un intralcio, degli oggetti da sistemare e dei quali liberarsi.  La Nigeria è una società socialmente disgregata che non assegna loro più nessun ruolo, neanche quello di moglie, anche perchè con la profonda crisi economica che attanaglia il Paese da anni, il semplice sposarsi è diventato sempre più difficile.”

Il rito vudù prima del viaggio

Così quando il procacciatore si presenta alla famiglia di queste giovani donne promette per esse facili guadagni, un lavoro onesto, un futuro certo e soprattutto un tornaconto in denaro anche per gli stessi familiari.  Viene così stilato un contratto con il quale la ragazza si impegna a restituire i soldi impegnati per il suo viaggio (somme che si aggirano anche a 20mila euro). La decisione presa dalla famiglia verrà poi benedetta dal “baba-loa”, una figura religiosa tradizionale molto diffusa in tutta la Nigeria, che sottopone la donna in partenza ad un particolare e preciso rito vudù. “Il santone prende alcuni elementi intimi della ragazza come peli pubici, sangue mestruale, polveri e foglie magiche, e li racchiude in un sacchetto, in una sorta di scapolare che la ragazza dovrà tenere sempre con sè, perchè è in quel mistico sacchetto che viene racchiuso il suo destino. Un destino legato al volere del santone e della famiglia che insieme hanno deciso che lei partisse e abbandonasse la sua terra.” Perciò il vincolo, il ricatto a cui risultano legate le ragazze è doppio: familiare e spirituale. “Per questo motivo sono donne molto vulnerabili e facilmente ricattabili.”

La traversata del deserto

È con questo primo trauma intimo e familiare, di distacco obbligato dai propri cari,  che le ragazze partono per l’Europa. A piccoli gruppi vengono caricate su jeep o camion e iniziano un’odissea dove attraversano diversi stati, montagne, pianure e il deserto del Sahara per poi giungere in Libia.  Ed è durante il viaggio che hanno inizio le violenze e gli abusi. Trattate come delle merci, viene loro centellinato il mangiare e anche il bere. “Per avere un bicchiere d’acqua – raccontano le operatrici – qualcuna ha dovuto cedere il suo cellulare, l’unico mezzo per rimanere in contatto con il proprio paese e la propria famiglia”.
Quando arrivano in Libia, alcune sono già incinta. “Nella Libia post Gheddafi le violenze che le ragazze subiscono sono aumentate a dismisura. Selezionate le più belle, i militari locali le prendono, le violentano e le torturano per giorni”. Alcune ragazze assistite dalle operatrici presentavano nel corpo diverse bruciature proprio inflitte dai loro carcerieri in Libia.

Sempre in Libia, il cosidetto “connection man” un intermediario che guadagna circa 50 dollari a persona, si occuperà del trasferimento in Italia sui barconi. Un’altra odissea che può concludersi anche in un naufragio che può portarle alla morte. Centinaia di persone stipate in barche fatiscenti arrivano nelle coste sarde, e poi riversate nei Centri d’accoglienza.  “Quando le ragazze arrivano nei nostri porti entrano subito in contatto con la “maman“, spesso una ex-prostituta, che con fare materno e protettivo attende lo sbarco di queste donne per accoglierle nella propria casa.” La “maman” è l’intermediario che fa parte dell’organizzazione criminale e che ha il compito di recuperare le ragazze e ricordarle i doveri, i vincoli, e soprattutto i debiti che hanno contratto con la stessa organizzazione che le ha permesso di arrivare in Italia”.

Lo sfruttamento in Italia

Le donne a volte vengono prelevate direttamente vicino ai luoghi di sbarco, prima ancora di arrivare ai centri veri e propri. Altre volte vengono avvicinate più tardi, dopo l’identificazione. In questi centri d’accoglienza le violenze e gli abusi continuano da parte degli altri migranti presenti. “Le donne devono barricarsi nelle proprie stanze”. Dopo che la “maman” le recupera, vengono messe subito in strada per iniziare a pagare sia il debito del viaggio, ma anche le spese di alloggio e di vitto che la “maman” fornisce.
Ci vorranno anni per recuperare tutti quei soldi. Nel frattempo si ammalano, vengono seviziate e si convincono che sia l’Italia la responsabile della loro condizione. “Attraverso i cellulari sentono le loro famiglie, ma difficilmente raccontano come sono costrette a vivere.”

Nel frattempo vengono minacciate e picchiate da altri uomini dell’organizzazione criminale ed è in questi contesti che a volte disperate scappano e chiedono aiuto alle strutture di recupero attraverso loro conoscenti o i numeri verdi esistenti. Dopo che scappano da quella vita il pericolo di ritorsioni per loro è sempre presente, per questo motivo le strutture di recupero sono segrete e protette. Un mondo quasi sconosciuto proprio per tutelare maggiormente le vittime delle organizzazioni criminali.

Ornella Demuru

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