È morto Flavio Carboni, il faccendiere sardo. Fu al centro di numerosi misteri

Il 14 gennaio scorso aveva compiuto 90 anni e nella notte di oggi, 24 gennaio, Flavio Carboni si è spento a Roma. Sardo di Torralba, in provincia di Sassari, il suo nome cominciò a girare negli ambienti che contano a partire dagli anni Settanta. Da allora è stato un crescendo di legami importanti ma anche controversi che non di rado si sono trasformati in capi di imputazione, costati in taluni casi anche l’arresto. Carboni – che veniva chiamato il faccendiere anche se non gli piaceva – aveva per questo deciso di scrivere un libro di memorie, ma non si sa ancora che abbia fatto in tempo a concludere le confessioni.

Nella storia più recente, Carboni era finito sotto accusa nella cosiddetta Inchiesta P3 che nel 2018 gli valse una condanna a sei anni e mezzo in primo grado. Secondo la magistratura romana, dove il processo si è tenuto, l’associazione P3 puntava a condizionare organi istituzionali per investire soldi privati nel settore energetico, in particolare nelle rinnovabili. In Sardegna la P3 pensava alla realizzazione dell’eolico off shore, ovvero con pale a mare. A processo era finito anche l’ex governatore Ugo Cappellacci, uscito dall’inchiesta per scadenza di termini )doveva rispondere di abuso d’ufficio). Carboni invece è stato ritenuto responsabile insieme all’ex imprenditore e parlamentare Denis Verdini più altri personaggi della politica campana. Le accuse andavano dall’associazione per delinquere e segreta all’illecito finanziamento passando per la diffamazione.

Sempre nel 2018, contro Carboni indaga anche la Direzione distrettuale antimafia di Cagliari. L’accusa era associazione per delinquere finalizzata al trasferimento fraudolento di valori. Il faccendiere di Terralba, insieme alla moglie Antonella Pau e al figlio Diego, venne ritenuto responsabile di una serie di operazioni finanziarie a Londra, dove sarebbero state aperte due aziende con soldi di origine illecita, secondo la ricostruzione della Dda. Non solo: attraverso un giro di prestanome, sarebbero state intestate auto, polizze e quote societarie sempre per mascherare la provenienza del denaro.

Il nome di Carboni era comparso anche nell’inchiesta della Banca Etruria: un filone giudiziario legato agli affari di un altro imprenditore sardo ben inserito oltre mare, tale Valeriano Mureddu cresciuto a Rignano, in provincia di Firenze, vicino a casa di Matteo Renzi. Mureddu è finito sotto processo per riciclaggio. All’inizio dell’indagine anche Carboni e l’ex moglie Maria Laura Stenu Concas ricevettero un avviso di garanzia per aver incassato dei soldi da una delle società di Mureddu.

Carboni era amico anche di Armandino Corona, il massone sardo per eccellenza. Fu poi socio in affari di Silvio Berlusconi nella mai nata Costa Turchese, un villaggio vacanze per ricchi a sud di Olbia. Non solo fu proprio Carboni che aiutò Berlusconi a comprare i terreni di Porto Rotondo dove poi ha preso forma Villa Certosa. Carboni fece affari pure Carlo Caracciolo, editore del qupotidiano La Repubblica e cognato di Gianni Agnelli. Nella lista degli amici, ecco Licio Gelli, il fondatore della P2; l’agentge segreto Francesco Pazienza; il boss mafioso Pippò Calò.

Proprio con Calò, Carboni venne imputato per la morte di Roberto Calvi, il presidente del Banco Ambrosiano, indagine dalla quale uscì senza colpe. Oggi, con la sua morte, i giornali italiani hanno ripercorso la vita di Carboni. Ha preso così posizione Renato Borzone, suo storico difensore. “Essendo buona parte della stampa italiana una succursale delle Procure – è scritto in una nota – leggo di dietrologi di tutti i tipi che affermano verità falsificate, ad esempio un’affermata condanna per la ricettazione della borsa di Calvi, processo dal quale Flavio Carboni fu definitivamente assolto perché il fatto non sussiste, e che nessuno ha il coraggio di affermare l’unica verità processuale”.

L’avvocato ricorda che “Carboni ha subito una ed una sola condanna definitiva, quella per la bancarotta del Banco Ambrosiano. Tutti gli orecchianti se ne facciano una ragione e, almeno davanti alla morte di un uomo, che non era San Francesco ma neppure il mestatore che descrivono, pubblichino almeno una notizia vera senza stare al traino del circuito mediatico giudiziario”, sottolinea il penalista.

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