Il caso Manuella e i sicari inventati: “Mio padre Aldo, ucciso dal sistema”

Maria Giulia Marongiu ha imparato a piangere di nascosto quando aveva quindici anni. Era mattina, quella prima volta. La mattina del 3 dicembre 1981. Suo padre Aldo, penalista cagliaritano figlio di arzanesi, un metro e sessanta di determinazione e talento abbondante nell’arte della difesa, era finito al gabbio da poche ore insieme ai colleghi Sergio Viana, Bepi Podda e Giampaolo Secci. Li andarono a prendere prima dell’alba, in forze, non certo suonando delicati al campanello come quando si va a trovare i parenti. Per tutti un’accusa infamante: aver ucciso e fatto sparire il corpo di un altro avvocato, Gianfranco Manuella, mai più tornato a casa dal 22 aprile di quello stesso anno. Marongiu, Viana, Podda e Secci rimasero in carcere per 675 giorni. Gli stessi in cui Giulia, 52 anni compiuti a settembre, piangeva di nascosto. Perché suo padre, come gli altri tre colleghi, in galera entrò da innocente. Ma non per il pm Enrico Altieri, avallato dal giudice istruttore Fernando Bova che rinviò tutti e quattro a giudizio aprendo le porte di altrettante celle. Con isolamento diurno e notturno. Erano ancora i tempi dei processi inquisitori, quando l’efficacia probatoria equivaleva a un affare solitario della Procura. Niente contraddittorio, l’imputato è colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. E non importava se le prove documentali dell’accusa poggiassero, come nel caso Manuella, su un disegno, quello sì, criminoso, di tre pentiti col vizio della bugia. Si erano inventati tutto Marco Marrocu, Pino Pesarin e Sergio Piras, accertò e sentenziò la Corte d’Assise l’8 ottobre del 1983. I sicari innocenti tornarono a casa. Ma Aldo Marongiu non poté farlo per tutto il tempo che avrebbe voluto: l’11 maggio del 1992 muore all’ospedale Businco di Cagliari. Ucciso a 54 anni, “per la seconda volta”, dice Maria Giulia. Da una leucemia.

La prima volta suo padre chi l’ha ammazzato?

Il sistema. L’orrore di un tritacarne. Una misura cautelare poggiata sul nulla. La magistratura, che dovrebbe essere l’eccellenza della pubblica amministrazione, un modello di integrità, un esempio, a Cagliari abdicò dal proprio ruolo. E oggi si ritrova pensionata a diecimila euro al mese, anche grazie alle tasse che paghiamo tutti e malgrado l’incapacità dimostrata nella gestione del potere. Il sistema a cui mi riferisco è lo stesso che ha ucciso Cucchi. E non mi si venga a dire che a Roma, in Procura, nessuno sapeva.

Il pm Altieri l’ha mai incontrato?

Provò anche a salutarmi.

E lei?

Gli risposi di non permettersi, ché aveva ucciso mio padre.

Il perdono esiste?

Credo sia roba per Dio, non per gli uomini. E siccome Dio non esiste, il conto è presto fatto.

Di quel 3 dicembre del 1981 cosa ricorda?

Mi ero svegliata, come ogni giorno, per andare a scuola e mia madre disse, a me e a mio fratello Antonello, che avevano arrestato papà.

A scuola era riuscita ad andare quella mattina?

In ritardo, ma arrivai. Ricordo che venni sgridata dalla professoressa. Spiegai cosa fosse successo. Poi andai in bagno a piangere. Da sola.

Quante altre volte l’ha fatto?

Sempre. E tutte le volte di nascosto. Tra noi, in famiglia, non ci siamo mai fatti vedere in lacrime. Mia madre Nives l’ho vista disperarsi in una sola occasione, pochi giorni dopo la morte di mio padre, davanti a un cassetto di camicie riaperto dopo tempo.

È diventata avvocatessa in memoria di suo padre?

Senza dubbio. Amo questo lavoro. E mio padre Aldo, profondamente.

Quante volte l’avrebbe voluto al suo fianco?

Sempre. Anche adesso. Aveva la battuta pronta, arguta. Usava una sola arma: il senso dell’ironia. Aveva una marcia in più, oggettivamente.

Ha fatto in tempo a dirgli tutto?

Ho perfino avuto un’animata discussione con lui pochi giorni prima che morisse. Mi sembrava il miglior regalo che potessi fargli: credere nella normalità di una malattia che invece lo stava consumando. È stato in cella da innocente ed è morto in una camera sterile.

Cosa le ha raccontato del carcere?

Mai nulla. Quei due anni sembrava che non fossero esistiti. Eppure…

Eppure cosa?

Dalla cella è uscito rarissime volte per l’ora d’aria. Lui e Sergio avevano paura che qualcuno ne approfittasse per mettere dentro chissà cosa, visti i tempi cupi di quei processi inquisitori, senza garanzie. Io racconto di mio padre perché la memoria è sentinella dei diritti. Come per l’Olocausto, guai se dimenticassimo.

Per Altieri e Bova cosa avrebbe voluto?

Quanto meno la rimozione dall’incarico. L’allontanamento dal tribunale. Certo, dopo un giusto processo.

Si arriva a provare un senso di vendetta?

No, vendetta no. Non saprei neanche come manifestarla. Però la rabbia non passa. Anzi. La consapevolezza dei miei anni fa aumentare il fastidio per l’ingiustizia subita. La sentenza, letta dal presidente Marco Floris, lo confermò: assolti con formula piena per non aver commesso il fatto.

Il processo l’aveva seguito?

Quasi tutte le udienze, nascosta in un angolo perché minorenne. In quelle aule non sarei potuta entrare. Ma era un modo per vedere mio padre, dalla gabbia, ma comunque per poterci guardare. In carcere andavo pochissimo. Il regolamento permetteva l’ingresso di due persone per volta, ogni quindici giorni. Facevamo i turni. Noi non siamo una famiglia, ma un clan. C’era la fila. Mia zia Anna Grazia, mio zio Tonino, i cugini. Tutti sottoposti a un rito non piacevole: venivamo perquisiti, frugati persino nelle mutande. Una volta portarono una cuginetta di 4 anni: fecero togliere le scarpe anche a lei. In quei due anni il tinello della nostra casa era stato trasformato in uno studio legale: c’era un tavolo con tutti i documenti, dopo mesi che eravamo riusciti a ottenerli. Venivano a studiare le carte anche la moglie e il fratello di Sergio, Lucia e Augusto. Io, però, non sono mai riuscite a leggerle: da ragazza non mi era concesso; da adulta non ho mai trovato il coraggio.

Chi difendeva suo padre?

Franco Luigi Satta e Pinuccio Fadda.

Nell’omicidio quale ruolo gli veniva attribuito?

Si erano inventati che fosse la mente del massacro, per regolare i conti intorno a un giro di droga.

L’8 ottobre 1983: la liberazione.

Credo fossimo rimasti svegli per i successivi due giorni. O quasi. Un via vai interminabile di parenti e amici continuò a starci vicino, dopo non averci mai lasciati soli. Il primo a entrare in casa fu Giampaolo Mundula, il barbiere chitarrista. Dopo due anni gli fece un taglio di capelli finalmente umano. Si dilettavano in una band tra amici. Mio padre suonava la chitarra e l’armonica a bocca.

Anche dopo il carcere?

Forse anche di più dopo il ritorno alla vita da uomo libero. Finito il lavoro, di cui era gelosissimo, mio padre non aveva perso l’abitudine di aprire lo studio e la casa agli amici. Non eravamo ricchi, ma siamo sempre stati solidali. Oggi Margine Rosso è un borgo fortunato, ma negli anni Settanta, quando ci trasferimmo noi, era periferia. La periferia di Quartu. Durante quell’assurda detenzione campavamo con lo stipendio da insegnante di mia madre. E da scuola non si assentò un solo giorno. Con quei soldi pagavano il mutuo. L’unico lusso era comprare il cibo migliore per cucinarlo e portarlo a nostro padre. Le guardie, però, la maggior parte delle volte lo buttavano. Avevano sempre il timore che dentro i contenitori nascondessimo qualcosa.

Lei ha mai difeso innocenti?

Sì. Ma col processo accusatorio, entrato in vigore nell’89, non è più possibile commettere la barbarie fatta a mio padre, a Sergio, a Bepi e a Giampaolo.

Cosa sa dei pentiti?

Marrocu, che trovò il coraggio di raccontare la verità, l’ho visto anche morire. Durante un’udienza.

Pesarin?

Mai più visto.

Piras?

Mi è capitato di incrociarlo, aveva un negozio a Quartu, dove mia madre entrò dopo la morte di mio padre. È stato il suo unico cedimento, l’unico momento di debolezza. Gli disse che aveva un morto sulla coscienza.

***

Maria Giulia Marongiu si è raccontata per quasi due ore: un vestito nero le fascia la figura esile. È seduta alla scrivania di mogano che fu di suo padre. Come lo studio dove lavora dal ’92. Come le toghe che da anni indossa lei. Come il corallo sistemato in una credenza antica insieme a qualche vecchio fascicolo. La finestra affacciata sul corso Vittorio Emanuele, al civico 28. Un piccolo mausoleo voluto per essere memoria di civiltà. “Non si può lasciare la giustizia nelle mani di chi pratica la tortura”. Sono quasi le sei di sera. La porta d’ingresso si richiude, insieme a un ultimo atto di resistenza: “Dobbiamo difenderci dall’arroganza del potere, per tutelare i più deboli”.

Alessandra Carta
(@alessacart on Twitter)

Diventa anche tu sostenitore di SardiniaPost.it

Care lettrici e cari lettori,
Sardinia Post è sempre stato un giornale gratuito. E lo sarà anche in futuro. Non smetteremo di raccontare quello che gli altri non dicono e non scrivono. E lo faremo sempre sette giorni su sette, nella maniera più accurata possibile. Oggi più che mai il vostro supporto è prezioso per garantire un giornalismo di qualità, di inchiesta e di denuncia. Un giornalismo libero da censure.

Per ricevere gli aggiornamenti di Sardiniapost nella tua casella di posta inserisci la tua e-mail nel box qui sotto:

Related Posts
Total
0
Share