Le vene aperte dell’Europa

Quando arriva un’ondata di calore come quella che in queste ore sta asfissiando la penisola Iberica, sui tetti e le strade incatramate di Madrid si materializza la metà superiore di un enorme guscio d’uovo, una bolla d’aria mista a smog che, invece di proteggere la città, assorbe tutta l’energia solare per irradiarla, cento volte più potente, sulle teste e dentro le vene dei suoi quattro milioni e mezzo di abitanti.

Che, se non fosse per le scienze meteorologiche, le dinamiche della bassa pressione e le bizze degli anticicloni, penseremmo al sadico passatempo di un dio bambino che gioca a stanare formiche con i raggi del sole proiettati dentro a una mega lente d’ingrandimento.

Allora, quando il mercurio schizza ai piani alti dei termometri e i piccioni perdono le dita nelle sabbie mobili dell’asfalto incandescente, alle formiche metropolitane non resta che pregare il Padre Onnipotente affinché sequestri il giocattolo del discolo figliolo, oppure abbandonare senza esitazione la città, per trovare refrigerio in montagna o al mare.

Io, personalmente, il fine settimana appena trascorso ho optato per entrambi, montagna e mare, andandomi a rifugiare in una delle regioni più belle della Spagna, il principato di Asturias. In questa terra mitica, storico baluardo della reconquista dei cristiani sugli infedeli musulmani, la natura è lussureggiante, rigogliosa di foreste atlantiche e di pascoli sempre verdi e fioriti, con le coste in gran parte ancora intatte e primordiali. Le brume, che dal mare avanzano generose verso il continente, fanno delle Asturie una piccola Irlanda, un’isola di smeraldo incastonata tra le scogliere a strapiombo sul Mar Cantabrico e le vette più impervie del Paese, la catena montuosa conosciuta come Picos de Europa.

La leggenda vuole che il nome “Picos de Europa” risalga ad alcuni secoli fa, quando i naviganti europei ritornavano dalle Americhe sulle rotte del Nord. Ciò che, dopo mesi di navigazione, avvistavano per primo dalle loro caravelle erano proprio quelle aguzze cime, spesso innevate, la conferma di aver raggiunto una volta ancora il Vecchio Continente. E sí perché, di mito in mito, il toro bianco in cui si era incarnato Zeus per rapire con un tranello la principessa della quale si era invaghito – Europa, figlia di Agenore, re di Tiro – , da allora di strada ne ha fatta tanta, giungendo sino agli antipodi di quella unità territoriale – e più tardi anche culturale – che comprendeva tutto ciò che si trovava a nord di Creta, e dalla Grecia peninsulare arrivava al più estremo Occidente (la Penisola Iberica, per l’appunto).

Così, mentre io mi ritrovavo a scivolare in automobile tra i meandri delle valli dei Picos de Europa, dai giornali radio apprendevo che la nazione che ha dato nome a quelle montagne e anima al continente intero, la Grecia, ormai sul baratro economico e pronta a dichiarare fallimento, indíva un referendum per far decidere ai propri cittadini se morire dissanguata e di morta lenta, o farla finita tagliandosi le vene d’un colpo secco.

Con uno dei miei quattro compagni di viaggio commento la notizia. Lui è un ragazzo onesto, un buon lavoratore, preciso e convinto delle sue rispettabili opinioni economiche e politiche. Uno dritto, insomma, nell’accezione inglese del termine – right – , che guarda caso significa anche “destra”. Bene, lui a dire che i greci hanno un debito verso l’Europa e i debiti vanno onorati, e io – che right non lo sono mai stato – a ribattere che il Fondo Monetario Europeo, se vuole, i soldi li trova, che non ha problemi di liquidità; lui, che se i greci prendono decisioni politiche sbagliate non devono essere gli altri Paesi della U.E. a pagarne le conseguenze, io a rispondere che l’aver fatto entrare la Grecia nella Comunità Europea a suo tempo fu un errore anche degli altri Paesi, perché era risaputo che i conti ellenici erano in rosso; e lui a insistere che è giusto tagliare gli stipendi dei lavoratori statali in epoca di recessione, e io a convincerlo che si dovrebbero ridurre soprattutto le spese militari, visto che la Grecia è una delle nazioni che più spende al mondo in armamenti, e che anche i governi di estrema sinistra hanno sempre eluso la questione; lui, che è stato dato tempo a sufficienza alla Grecia per raddrizzare il tiro dei conti pubblici, che adesso basta, e cosa saranno mai alcuni anni di cinghia stretta, e io, che a farne le spese saranno sempre, e comunque, i più deboli nella scala sociale; lui che si arrangino, io che non li si può lasciare con le vene aperte a morire dissanguati in questo tragico momento.

Una manciata di ore più tardi, e parecchi chilometri alle spalle, chiedo al mio compagno di viaggio, quello “dritto”, di darmi il cambio alla guida dell’auto. Ci fermiamo in un paese di montagna, e io e gli altri viaggiatori ne approfittiamo per cercare un bagno in un bar della piazza principale. La macchina è in sosta vietata, ma lui rimane a custodirla perché dice di non avere bisogni impellenti. Due minuti dopo, invece, ce lo ritroviamo nello stesso bar, a proporci di riposare un pò bevendo qualcosa al tavolino. Il tempo di mandar giù con tutta calma un paio di bibite e, di ritorno alla macchina, troviamo sul parabrezza una bella multa per divieto di sosta: duecento euro, cento se pagati entro pochi giorni.

Qui sorge il dilemma: visto che la responsabilità di aver lasciato l’auto incustodita è tutta sua, la sanzione dovrebbe essere interamente a carico suo. Del resto, chi sbaglia paga, e non è giusto che debbano essere gli altri ad accollarsi gli errori di uno. Certo, cento euro diviso cinque fanno soltanto venti euro a testa, che non lasciano in miseria nessuno, mentre cento d’un botto e per una persona sola sono una batosta considerevole, e lui, dice, non sta sgobbando dalla mattina alla sera per pagare multe ad altri.

Miracolo! È bastata una multa per divieto di sosta a far diventare il mio compagno di viaggio, quello “dritto”, un paladino della solidarietà sociale e della redistribuzione economica, un estremo oppositore dei poteri forti, un difensore della giustizia reale e pratica contro quella astratta e teorica, così lontana dalla sua personale situazione e dal suo portafogli. A sua insaputa, infine, il sostenitore più convinto delle ragioni del popolo greco.

E mentre lui si preparava incoscientemente a scendere in piazza Sintagma per manifestare contro le misure lacrime e sangue della Troika e appoggiare il NO al referendum indetto dal premier Alexis Tsipras, a me e agli altri compagni di viaggio è balenata per un momento la tentazione di non sborsare neanche un euro, e neppure mezza dracma, per venire incontro al nostro amico. Venti euro non sono molti, ma meglio a me che a lui. E che gli altri prendano esempio, che serva di lezione, che noi le cose le facciamo bene e non chiediamo nulla in cambio, che non dobbiamo niente a nessuno, e che ognuno pensi per se…

Per fortuna, in quest’Europa “dritta” e responsabile, c’è chi resiste alle cure forzate del raddrizzamento e in tanti ancora si mantengono storti e scriteriati, anche quando l’opinione dominante prova a convincerci che la strada giusta è solo quella retta. E così, la multa l’abbiamo divisa tra cinque e non è stato un dramma, come non sarà un dramma risanare i debiti ellenici tra i 28 Paesi membri dell’U.E. e ricucire, una volta per tutte, i punti delle vene aperte della Grecia e dell’Europa intera.

Andrea Ortu

Intervento pubblicato anche su https://quadernispagnoli.wordpress.com/

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