Il privilegio di non chiamarsi Abdulmalak

In un’epoca in cui c’è chi è disposto a morire pur di entrare clandestinamente nelle terre promesse d’Europa, epoca di porti e di frontiere pullulanti vittime di esodi biblici e diaspore due-punto-zero, un Paese moderno e civilizzato come la Spagna, dando mostra di un nobile ed altruistico gesto, si dispone a concedere non dei semplici e temporanei permessi di soggiorno, bensí passaporto e piena nazionalità ad un consistente numero di cittadini stranieri.

Si parla di cifre a quattro o cinque zeri, dalle novanta alle trecentomila persone interessate, benché alcuni ritengano che potrebbero essere molte di più. La legge entrerà presto in vigore, avendo superato gli ultimi tramiti parlamentari il 24 marzo scorso, e le motivazioni di questa generosa concessione, secondo i promotori dell’iniziativa (esponenti del Partito Popolare, attualmente al governo), sono di carattere storico, o meglio di “riparazione storica”.

Tra i requisiti imprescindibili: masticare uno spagnolo basico e non chiamarsi Abdulmalak, Ebn Alì o Al Ahmed, niente che suoni ad arabo, per intenderci. In effetti, nella lunga lista – oltre 5.000 voci – apparsa in internet, si elencano i cognomi dei potenziali destinatari della cittadinanza spagnola, e i tre sopraccitati non vi compaiono. Sarà che si corre il rischio che costoro professino l’islam? Sembrerebbe di sì. Perché, si evince, tutti i fortunati beneficiari dovranno essere perlomeno discendenti da famiglie che seguivano i precetti della religione ebraica.

Stiamo parlando degli ebrei sefarditi, sudditi dei re di Spagna come tutti gli altri, ma che, per supposte ragioni di sangue e di religione, col decreto dell’Alhambra (conosciuto anche come l’editto di Granada, sottoscritto nel 1492 dai re cattolici Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona), dopo secoli di pacifica convivenza, furono obbligati da un giorno all’altro ad abbandonare le loro case, venendo espulsi da tutti i territori della Corona (Sicilia e Sardegna incluse), con pena di morte e confisca dei beni per i contravventori.

È facile immaginare le dimensioni di quella tragedia a livello umano ed affettivo, senza dubbio una delle pagine più nere della storia di Spagna. Anche perché, nel giro di 4 mesi esatti, poi prorogati di altri dieci giorni per motivi logistici, si persero per sempre le competenze e le abilità di decine di migliaia di artigiani, commercianti, filosofi, poeti, banchieri, rabbini, lasciando un vuoto culturale incolmabile nella società spagnola di allora.

Con tali premesse, la “riparazione storica”, sebbene arrivi con più di 5 secoli di ritardo, non può che essere totalmente condivisibile. Ma la Spagna, di scheletri nell’armadio ne ha parecchi. Così come la maggior parte dei Paesi europei, del resto. Solo il 22 aprile scorso, per esempio, l’insospettabile e pacifica Islanda ha abrogato un regio decreto, ancora vigente dal 1615, che autorizzava i propri sudditi ad uccidere i cacciatori di balene spagnoli – soprattutto baschi – che in cerca di prede si spingevano fin sotto le loro coste. Grazie a quella legge, emanata nel 1615 proprio in occasione del naufragio di una flotta di balenieri baschi, i locali poterono trucidare impunemente ben 32 membri dell’equipaggio, il massacro più cruento nella storia dell’isola boreale.

E alle ferite ancora fresche per i crimini commessi sotto la dittatura di Franco, con i morti della Guerra Civile che reclamano giustizia dalle fosse comuni pochi centimetri sotto i nostri piedi, all’impatto devastante dei conquistadores sulle popolazioni indigene delle Americhe, all’abbandono al proprio destino dei Saharaui – costretti a vivere in campi profughi nel deserto sin dal 1976, quando il Marocco ne occupò i territori, dopo che la Spagna si ritirò dal suo protettorato, lavandosene le mani – , a tutto ciò, infine, si sommi un’altra pagina nerissima nella storia del Paese, anch’essa meritevole di “riparazione”: l’espulsione in massa dal regno di Spagna dei moriscos (i musulmani costretti a convertirsi al cristianesimo), ordinata dall’imperatore Filippo III nel 1609.

Un’altra diaspora biblica, un altro esodo catastrofico e dalle traumatiche conseguenze, sia per chi dovette repentinamente abbandonare la terra dei padri (la Spagna) per andare a rifugiarsi in luoghi a loro non più familiari (in Marocco, per esempio, che essendo un Paese musulmano li vedeva con certa ostilità, poiché i moriscos si erano dovuti convertire al cristianesimo già da un centinaio d’anni); sia per chi rimase, che perse centinaia di migliaia dei migliori agricoltori, ingegneri, ceramisti, intellettuali, tessitori e matematici di tutta la penisola iberica. Né più né meno come successe con i sefarditi un secolo prima, a ben guardare.

Mi chiedo, allora: ben vengano le “riparazioni storiche” messe in atto oggi dal governo di Spagna, ma non si commette un altro gravissimo errore storico a discriminare, per sangue e religione in fin dei conti – altrimenti non si spiega perché i sefarditi sì, e i moriscos no – i beneficiari di tali iniziative? Vogliamo perseverare, come ai tempi dei re cattolici, nel classificare le persone in cittadini di seria A e cittadini di serie B, motivando il tutto con infondate teorie di affinità o divergenze culturali? Se così fosse, al pari della nobiltà del gesto istituzionale sbandierato dall’esecutivo di Mariano Rajoy, dovrebbe corrispondere un’altrettanto elevata e valida giustificazione sull’esclusione dei moriscos dalla “riparazione storica” in atto. Perché, la ragione delle analogie linguistiche per cui i sefarditi hanno mantenuto in parte vivo l’uso del castigliano, risulta stretta se si considera che l’attuale spagnolo possiede da un 15 ad un 30% di vocaboli di origine araba.

Alcuni storiografi sostengono che il vero motivo della cacciata dalla Spagna degli ebrei prima, e dei moriscos poi, fu la necessità di nobili e sovrani di fare cassa per ripagare debiti di guerra o finanziare spedizioni transoceaniche, esimendosi dall’onorare i prestiti ricevuti, o sfruttando l’urgenza di chi dovette vendere in tutta fretta e sottocosto i beni e le proprietà. Non voglia il cielo che anche stavolta, più che rimediare ai refusi della storia, le élites di potere stiano provando ad allungare le mani verso le tasche di chi ha fatto fortuna all’estero, richiamandoli in patria, dimenticando volutamente quei figli di un dio minore che, statisticamente, hanno conti in banca meno sostanziosi, o che un conto in banca non ce l’hanno proprio. D’altronde, le tendenze di questo nuovo millennio sono sempre più evidenti: di fronte ad un mare di naufraghi, lanciare il salvagente a chi guarda dalla riva.

Andrea Ortu

Intervento pubblicato anche su https://quadernispagnoli.wordpress.com/

 

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